A Natale in tavola si portano i sontuosi, regali buccellati o cucciddati, fatti di mandorle e nocciole, noci e uva passa, fichi secchi e buccia d’arancia. Avrete sicuramente visto in estate i fichi infilati in lunghi fili di spago e “seccati” al sole. Parte di questi servono in inverno per fare i buccellati.
Il “cucciddatu” ha un’origine antica e un sicuro antenato nel “panificatus”dei romani. Il suo nome deriva dal tardo latino buccellatum, cioè pane da trasformare in buccelli, ossia bocconi, per la sua morbidezza.
Anche i “Nucatuli” sono dei tipici biscotti natalizi. Dolci di sicure origini arabo-medioevali sono diffusi in tutte le zone della Sicilia, anche con altri nomi come: mucatuli a Modica, ciascuna (dal dialetto ciascu, ovvero fiasco, recipiente) nel Siracusano, saschitedda a Buscemi.
Un tempo erano famosi i nucatili di Natale, preparati nel monastero di Santa Elisabetta a Palermo, città in cui questi dolcetti sono conosciuti sin dal XV secolo. Del resto, già in un ricettario italiano del Trecento compare un dolce con questo nome: l’etimo, dall’antico verbo nucare, ossia lavorare le noci, è di probabile derivazione araba (nagal) che vuol dire frutta secca.
Un’ulteriore variante di questo dolce, consumato sempre durante il periodo natalizio nella Sicilia Occidentale, prevede un ripieno particolare come la ricotta condita e la crema pasticciera.
L’ “Aranciata” è un antichissimo dolce natalizio della Contea di Modica, dolce che può esser preparato utilizzando scorze d’arancia oppure, cedri, limoni, mandarini e mandaranci. È un dolce che si può consumare singolarmente oppure da utilizzare come decorazione per altri dolci.
La “Cedrata”, invece, è un torrone molto duro ottenuto cucinando scorze tritate di cedri ed arance insieme al miele, cannella e vaniglia. All’impasto deve esser data una forma rettangolare e lo si deve far raffreddare, ottenendo così la sua caratteristica forma compatta.
I “Cuddureddi” sono dei dolci natalizi tipici della città di Grammichele, in provincia di Catania. Hanno la particolare forma ad anello, il loro involucro è creato impastando farina, acqua e zucchero ed il loro ripieno è costituito da un impasto costituito da vino cotto, spezie, mandorle, cannella e canditi di arance locali.
Ce lo prova questa deliziosa paginetta di Andrea Camilleri:
”Il Dizionario della lingua italiana” di Devoto-Oli ci insegna che la parola cubaita discende dall’arabo qubbiat, che significa “mandorlato”, mentre la parola torrone deriva dallo spagnolo turron dal verbo turrar (arrostire), il quale a sua volta nasce dal latino torrere (tostare).
Due voci che hanno due etimi diversi: dunque non sono la stessa cosa, anche se hanno in comune alcune componenti. Ci tengo a precisarlo, perché assai spesso i due termini vengono indifferentemente adoperati per designare ora l’uno ora l’altro.
Dunque, la cubaita ha origini arabe e il torrone origini latine.
Io personalmente amo la cubaita, quella fatta dai soli tre componenti originari: mandorle, pistacchi e miele. E’ una affermazione che, ai giorni nostri, quando tanto si blatera di scontro di civiltà, di confronto armato tra religioni e culture, e baggianate simili, può essere vista con qualche sospetto. Ma torno a ripeterlo: mi schiero dalla parte della cubaita.
Il torrone, che pure è assai pregevole come quello fatto a mano, invece mi attira assai di meno, ormai non sai più quali sapori puoi trovarci dentro.
La cubaita è semplice e forte, un dolce da guerrieri, appunto, mentre il torrone inclina alla raffinatezza languorosa.
Amo la cubaita che “ci vuole il martello a romperla”, come scrive Sciascia.
A fatica riesci coi denti a staccarne un pezzetto e non lo devi aggredire subito, lo devi lasciare ad ammorbidirsi un pochino tra lingua e palato, devi quasi persuaderlo con amorevolezza ad essere mangiato.
Certo, per i guerrieri d’una volta era più facile, dato che usavano farsi limare i denti per usarli come arma nei corpo a corpo.
Io, bambino, la scoprii nel cassetto del comodino di mia nonna Elvira, che aveva la curiosa abitudine di mangiarsene un pezzetto a letto prima d’addormentarsi.
“Che è, nonna?”
“Cubaita di Cartanissetta”.
Fu un amore fulmineo. E infatti.
“Ma tu, figlio mio, mangi pietre?” – mi domandò il dentista quando mi ci portarono la prima volta a dieci anni.
“Nonsi, cubaita”.
Ho viva ancora la sensazione di quegli anni d’infanzia quando m’infilavo la mano in tasca per prendere un pezzetto di cubaita, la fodera resa tutta appiccicosa dal miele che si scioglieva e il pezzetto di cubaita che, come una calamita, si portava appresso attaccati gli altri tesori d’allora, un francobollo, una fava caliata, un centesimo…
Si racconta che i guerrieri arabi se la tenevano dentro le bisacce o quello che erano durante i loro lunghissimi viaggi per terra e per mare: infatti è un dolce che non ha limiti di scadenza.
La cubaita ti obbliga a una su particolare concezione del tempo, ha bisogno dei tempi lunghi del viaggio per mare o per treno, non si concilia con l’aereo, con la fretta.
Ti invita alla meditazione ruminante.
Rende più dolce e sopportabile l’introspezione che non sempre è un esercizio piacevole.
Alla dolcezza del miele mischia l’”amarostico” delle mandorle tostate e il ricordo del verde attraverso il pistacchio. Diventa così una sorta di filosofia del vivere.
Ora, vecchio, mi viene assai difficile mangiare la cubaita. Mi consolo scartandola per offrirla agli amici. Ma la carta me la tengo in tasca. Ogni tanto la tiro fuori e l’odoro. E quell’odore, con l’aiuto della memoria, mi restituisce il sapore impareggiabile della cubaita”.
Tutte le ricette che abbiamo presentato si trovano in questo link
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