Il volume è edito da Europa Edizioni e l’autore, Elio Collovà, è un commercialista palermitano che ha scelto di dedicare la sua esperienza professionale esclusivamente alla cura dell’amministrazione giudiziaria dei patrimoni mafiosi. Ci consente quindi di osservare dall’interno le nuove modalità attraverso cui si manifesta l’agire illegale.
Come ha già ampiamente documentato Giacomo Di Girolamo nel volume Cosa grigia. Una nuova mafia invisibile all’assalto dell’Italia, pubblicato da Il Saggiatore, oggi capita sempre più spesso che non sia più l’imprenditore ad essere ricattato dal mafioso ma che fra i due soggetti si stabilisca una sorta di fattiva collaborazione a cui si somma l’apporto ‘esterno’ del politico di turno e la ‘benevola disponibilità’ di alcuni segmenti del mondo bancario, della pubblica amministrazione e delle professioni (avvocati, commercialisti, finanzieri, medici, ingegneri).
Da mettere in conto anche l’interessata ‘distrazione’ anche di una certa parte della cosiddetta società civile.
Solo per fare un esempio, a fronte dell’uso combinato di riciclaggio, corruzione ed evasione fiscale con cui le imprese mafiose drogano la libera concorrenza, i nostri politici sono stati capaci di abolire il falso in bilancio, attenuare fortemente l’incidenza della Rognoni-La Torre, non introdurre il reato di auto riciclaggio e aprire indiscriminatamente e quasi senza nessun controllo al gioco d’azzardo.
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Inquietanti sono, in particolare, le annotazioni riguardanti i comportamenti strabici delle banche, descritte come piuttosto superficiali nell’esame dei bilanci aziendali e sempre pronte ad aprire linee di credito a privati senza alcuna garanzia che non sia la loro presunta o effettiva statura economica e/o istituzionale.
Dimostrano invece un rigore assoluto e si affrettano a spedire agli amministratori giudiziari “la lettera di revoca di fidi alle aziende in sequestro e l’invito (sic!) al ‘rientro nel conto entro termini che si aggirano dai tre ai cinque giorni.” (107), paradossalmente nel momento in cui vengono offerte “garanzie” di assoluta trasparenza e legalità nella gestione.” (108)
Nel contesto di questo perverso quadrilatero, diventa fondamentale per i magistrati che combattono la mafia l’apporto di un tecnico capace di mettere in luce le correlazioni fra illeciti aziendali ed evasione fiscale, fra attendibilità contabile e riciclaggio, soprattutto in vista della creazione cdi ‘fondi neri’.
L’imprenditore mafioso è quindi colui che ha trasferito nell’impresa il ‘metodo mafioso’ consistente nella monopolizzazione, mediante l’uso dell’intimidazione o della corruzione, delle forniture di beni e servizi, soprattutto in relazione alla realizzazione di opere pubbliche.
Appare paradigmatica, a questo proposito, la ricostruzione della vicenda che fa capo a Pietro Di Vincenzo, ingegnere, che era arrivato a ricoprire ruoli istituzionali prestigiosi come quello di presidente regionale dell’Associazione costruttori edili (ANCE) e di presidente di Confindustria di Caltanissetta.
Ma sono proprio le circostanze del sequestro cautelare prima e della definitiva confisca dopo delle imprese facenti capo al Di Vincenzo che gettano più di un’ombra sull’efficacia delle risposte che hanno dato, almeno finora, coloro che dovrebbero difendere la legalità, i legislatori in primo luogo.
L’esperienza raccontata da Collovà ci dice appunto che, mentre nella prima fase l’azione dell’amministratore giudiziario si può esplicare positivamente, consentendo di portare a termine le attività che erano in essere al momento del sequestro, a confisca avvenuta le aziende, anche se in possesso di buone capacità, non sono messe in grado “di proseguire nel conseguimento dei propri fini istituzionali con altre iniziative imprenditoriali” (79).
Non era certo questo l’intento di Pio La Torre quando aveva individuato nell’aggressione ai patrimoni mafiosi lo strumento per arginare lo strapotere di Cosa Nostra.
Grave è soprattutto la sensazione di disillusione e sfiducia nello Stato che si crea nei dipendenti di queste aziende, che magari, in un primo momento, potevano essersi sentiti liberati dal peso di un ‘padrone’ che aveva poco rispetto per le loro professionalità ma che dopo vedono messo a rischio il loro stesso posto di lavoro.
Per come è stata configurata l’Agenzia nazionale per i beni confiscati, afferma infatti l’Autore, “l’attuale normativa sulle confische non fornisce garanzia alcuna sul mantenimento dei livelli occupazionali delle aziende in confisca perché lo Stato non fa impresa” (78), anche se, in altra parte del saggio (188-206), si fa riferimento a qualche eccezione.
Su questo aspetto, tuttavia, avremmo desiderato che l’Autore ci aiutasse a capire di più e meglio per quali meccanismi legislativi la confisca dei beni mafiosi diventa l’anticamera della loro dissoluzione e l’amministratore giudiziario si configura come una sorta di commissario liquidatore.
In questo senso appare anche poco convincente la difesa d’ufficio della figura
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