Chi la pensa diversamente diventa un
ostacolo per chi l’Italia “la vuole cambiare davvero”. Il dibattito politico ne esce inquinato, l’opinione pubblica ubriacata dagli slogan e incapace di trovare il bandolo della matassa.
La prima parte del Jobs Act ha già forma di legge (L. n°78/2014), è stata approvata a maggio ed è intervenuta massicciamente su contratti a termine, somministrazione e apprendistato (Argo se n’è già occupato).
Ciò di cui si dibatte oggi è la seconda parte, il disegno di legge delega n°1428/2014. In parole spicciole, il Governo chiede al Parlamento l’autorizzazione per legiferare al suo posto, ma entro i limiti decisi dal Parlamento stesso, al quale spetta la titolarità del potere legislativo.
Come spiega l’art. 76 della Costituzione: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.
Nel Jobs Act, invece, si assiste ad una genericità da far paura. In particolare, l’articolo 4 contiene in pratica una delega in bianco al Governo per riformare tutti gli istituti più rilevanti del diritto del lavoro.
Passiamo in rassegna alcuni passaggi:
Per i più attenti, se si vuole entrare nel merito, il riferimento ad un “testo organico semplificato” non appare cosa nuova. Il riferimento è al progetto che ormai da molti anni porta avanti il senatore e giuslavorista Pietro Ichino, vero e proprio guru di Renzi in materia di lavoro dai tempi delle primarie contro Bersani, passato dal PD a Scelta Civica proprio dopo la sconfitta di Renzi alle primarie del 2012. Un testo di cui appare condivisibile solo la finalità di semplificare la normativa in materia di lavoro, ormai di difficile lettura anche per gli addetti ai lavori, ma che rappresenta nelle modalità e nei contenuti un attacco pesante ai diritti dei lavoratori.
Quale sarà il rapporto tra la miriade di tipologie contrattuali adesso previste e il nuovo contratto a tutele crescenti? Il testo d’iniziativa governativa non è molto chiaro sul punto dato che, nel prevedere la “redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro”, spiega anche che questo possa prevedere “l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”. Anche se il testo uscito dalla Commissione Bilancio del Senato ha eliminato il riferimento all’introduzione di nuove tipologie contrattuali, neanche lo nega espressamente, eludendo la problematica, che invece non è di poco conto.
Si dice solo che la crescita delle tutele sarà legata all’anzianità di servizio, ma non si spiega quali saranno queste “tutele” crescenti. A parte che si dovrebbe valutare la rilevanza di un contratto a tutele crescenti dopo l’intervento di liberalizzazione dei contratti a termine. Che motivo avrebbe il datore di lavoro di preferire un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti se ha la possibilità di assumere un lavoratore a termine, senza specificarne i motivi, e mantenerlo sotto il ricatto del rinnovo per 3 anni?
E’ chiaro che questi siano gli interessi da bilanciare, ma in che senso si revisionerà la disciplina delle mansioni? Assisteremo a più o meno mascherati patti di demansionamento, adesso tassativamente vietati dalla legge a tutela della professionalità dei lavoratori?
Sbalordisce tra l’altro che, di fronte alla genericità della legge delega, si sia animato un
Tutto l’ambaradan montato sull’articolo 18 nasce in realtà dal riferimento all’introduzione del contratto a tutele crescenti che, come abbiamo visto, non specifica niente sulle modalità di intervento sull’articolo 18. E’ questo l’aspetto più preoccupante. Si discute dei particolari, ma i particolari non ci sono. Licenziamenti discriminatori sì, licenziamenti disciplinari no, oppure al contrario o anche nessuno dei due.
Il disegno di legge delega, se non modificato in sede di approvazione parlamentare, potrà consentire anche l’intera abrogazione dell’articolo 18 e il Parlamento non potrà più far niente.
Aldilà di un’analisi nel merito della riforma, che necessiterebbe di un articolo a parte, il problema è soprattutto di metodo. In pericolo ci sono gli equilibri del sistema costituzionale. La questione potrebbe aggravarsi ulteriormente qualora,
malauguratamente, il Governo dovesse porre il Parlamento sotto il ricatto della fiducia. E se quest’ultimo dovesse confermare la fiducia, sarà proprio il Parlamento stesso il primo licenziato illustre della nuova riforma.
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sono rimasta stupita e vergognata nel constatare l'indifferenze del nostro attempato capo dello Stato di fronte alla minacciata fine dell'art. 18 . Non c'è più speranza di risollevare le sorti della fetta più povera della nazione. Bisogna progettare un sollevamento e chiedere a gran voce le elezioni. Dove si trova Vindigni?