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Nicolò Azoti ucciso dalla mafia a 37 anni, una storia da ricordare

Non ha più smesso di testimoniare Antonina Azoti, figlia del sindacalista ucciso nell’immediato dopoguerra perchè difendeva i diritti dei contadini contro la prepotenza degli agrari e dei loro gabelloti. E’ intervenuta di recente ad uno degli incontri sulla legalità del Campo antimafia al san Teodoro, come fa da quando ha trovato il coraggio di parlare in pubblico durante una manifestazione, secondo quanto ci racconta nel suo libro “Ad Alta Voce, Il riscatto della memoria in terra di mafia, edito da Terre di mezzo nel 2005.
“Al tredicesimo anniversario della strage di Capaci, ho partecipato alla catena umana in memoria del giudice Falcone: c’erano migliaia di persone che protestavano per la mafia ed ho visto una società improvvisamente matura, uscita dall’immobilità. Forse proprio questa partecipazione ha fatto in modo che anch’io aprissi agli altri il mio dolore.
C’era una pedana da dove poter parlare per ricordare Falcone. Mio marito voleva trattenermi, ma io invece salii e dissi ad alta voce: anch’io ho qualcosa da dire, ascoltatemi. La mafia uccide da più di 50 anni. Ha ucciso un giovane di 37 anni, un sindacalista che si batteva per la riforma agraria. Si chiamava Nicolò Azoti: io sono sua figlia, e non l’ho conosciuto”.
Il 23 dicembre del 1946 Nicolò Azoti, CGIL, segretario della Camera del Lavoro di Baucina (Pa), fu vittima di un agguato mortale (5 colpi di pistola alle spalle), riuscì a fare i nomi dei propri assassini, ma l’inchiesta per la sua morte venne archiviata in istruttoria, così come avvenne per gli omicidi dei 39 (avete letto bene, trentanove) sindacalisti uccisi in Sicilia dal 1946 al 1948.
La sua colpa? provare ad applicare le disposizioni fissate dai decreti Gullo (avvocato comunista, nel 1944 Ministro dell’Agricoltura) che, attraverso l’abolizione del latifondo e il superamento delle condizioni di povertà dei contadini, tentavano di rimettere in discussione il sottosviluppo del nostro mezzogiorno.
In particolare, puntava su due obiettivi: far sì che il 60% della produzione ottenuta dalle coltivazioni restasse ai contadini e distribuire i terreni incolti o malcoltivati ai contadini, organizzati all’interno di cooperative agricole.
Come sempre avviene in questi casi, in un primo momento ad Azoti  venne proposto di “lasciar perdere” in cambio di vantaggi personali, poi, dopo il rifiuto, alle minacce seguì l’agguato.
Si trattò, come scrisse la CGIL siciliana nel documento presentato alla prima Commissione antimafia nell’ottobre 1963, di “una vera e propria guerriglia contro i lavoratori, nel cui corso caddero a decine non solo gli attivisti e i dirigenti sindacali, ma quegli elementi che, in qualche modo, solidarizzavano con la lotta popolare contro il feudo”.
Come spesso è avvenuto in questi casi, la vedova e i due piccoli figli vennero isolati, erano, semplicemente, i parenti di un morto ammazzato “che un po’ se l’era cercata”. Un omicidio politico e sociale derubricato a fatto privato.
Il parroco si rifiutò di far entrare la bara in chiesa. Mancò, per paura, la solidarietà di quelli per i quali era morto. L’ebanista, che conosceva le opere a memoria e suonava il bombardino, era stato ucciso una seconda volta.
“Quando mio padre morì, scrive la figlia, andammo a vivere in quella che era stata la sua falegnameria. C’era un’umidità incredibile, l’acqua scorreva dai muri. Mia madre aveva un pezzetto di terra, che faceva solo frumento. […] Nessuna pensione per la vedova, non c’erano assegni per i figli. Nessun aiuto da parte della famiglia. Avevamo il grano, mangiavamo quello. Pane e pasta con un filo d’olio. […] C’era una povertà che adesso non riusciamo più neanche a pensare e noi eravamo più poveri di tutti, una vedova e due orfani”.
Solo nel 1986 la Regione riconobbe alla vedova un vitalizio di 500.000 lire, su iniziativa di Rita Bartoli Costa (moglie di Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica ucciso dalla mafia) . Un riconoscimento importante anche perché, ricorda la figlia, “Col giornale in mano, mia madre fece il giro dei vicini di casa. C’era scritto che mio padre era stato vittima della mafia e lei diceva ‘ ecco per cosa è morto mio marito, ecco chi era’. Teneva quel giornale sempre a portata di mano, pronta a mostrarlo. Prima non si poteva spiegare, nessuno ci avrebbe creduto”.
Va, infine, ricordato che solo nel 1999 l’associazione ‘Non solo Portella‘ ha ottenuto il riconoscimento di vittime della mafia per tutti i 39 sindacalisti uccisi nel dopoguerra.
Il racconto di Antonella Azoti ha vinto il premio Pieve santo Stefano dedicato ai diari e alle memorie, un contributo importante per non dimenticare.

Argo

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  • A volte mi meraviglio come certi uomini nell'arco della loro breve esistenza hanno compiuto opere cosi' significanti per il mondo mentre dall'altra parte dello spectrum ci sono cosi' tante persone che vivono per loro stessi e non pensano per niente.

  • Grazie Antonina per aver raccontato "ad alta voce" la tua storia e quella di tuo padre. È un profondo atto d'amore non solo nei suoi confronti , ma anche nei confronti di tutta quella gente che, come me, non si è informata e che a tutt'oggi ne ignorava l'esistenza. GRAZIE

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