In sordina, nascosta dietro la cortina
Si tratta di uno degli interventi che avrà ricadute e incidenze maggiori sulla vita degli italiani, di una delle più sconcertanti riforme del lavoro degli ultimi anni: il decreto Poletti (D.L. 20 marzo 2014, n°34) e la sua successiva conversione in legge (L. 16 maggio 2014, n°78), che rappresentano, appunto, la prima parte del famigerato “Jobs Act”.
La seconda parte ha ancora la forma di disegno di legge (D.D.L. n° 1428/2014) e, secondo le previsioni del governo, dovrebbe essere portata a compimento entro la fine dell’anno.
Se la riforma Fornero (L. n°92/2012) viene ricordata soprattutto per l’incisivo intervento sull’articolo 18 finalizzato ad una maggiore flessibilità in uscita, la prima parte del “Jobs Act” ha completato il disegno intervenendo sulla disciplina di contratti a termine, apprendistato e somministrazione con il preciso obiettivo di realizzare una piena flessibilità in entrata nel mercato del lavoro.
Una flessibilità che non “ci viene chiesta dall’Europa”, ma che rappresenta al contrario una violazione netta della direttiva europea in materia di contratti a tempo determinato (direttiva 99/70/CE).
Con la nuova riforma, il datore potrà assumere con contratto a termine senza una motivazione specifica, anche se l’esigenza lavorativa che il lavoratore è chiamato a soddisfare non sia temporanea, bensì permanente. Cade infatti il riferimento alla necessità di motivare le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” alla base della scelta di un contratto a termine, com’era invece necessario nella disciplina previgente.
Mentre con valenza perlomeno ossimorica il d.lgs. n° 368/2001 continua a recitare al suo art.1, c. 01 che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”, in realtà si è invertito il rapporto tra regola ed eccezione, con il contratto a termine che è diventato la regola nei rapporti di lavoro.
Si dirà: “a fronte di questa maggiore flessibilità per il datore, saranno stati introdotti correttivi per tutelare il lavoratore in materia di rinnovi!”. La risposta è no
Il datore di lavoro potrà prorogare il contratto per 5 volte nell’arco di 36 mesi, creando quindi un rapporto di lavoro a singhiozzo che, naturalmente, ne incrementa il potere di ricatto.
Gli unici limiti, sostanzialmente, rimangono due: il tetto massimo del 20% di dipendenti con contratto a termine all’interno dell’organico aziendale e il limite temporale dei 36 mesi.
Entrambi però rappresentano più uno specchietto per le allodole che una garanzia per il lavoratore.
Un limite quantitativo alle assunzioni a termine (più o meno elevato della soglia del 20%, a seconda dei settori) veniva spesso e volentieri previsto dalla contrattazione collettiva anche prima dell’approvazione di questa legge e, tra l’altro, rimane oggi derogabile in una miriade di casi.
Basti pensare che nel computo del 20% non si contano lavoratori somministrati, co.co.co. e apprendisti, tra gli altri.
Inoltre, la sanzione per la violazione di tale limite non è, com’era originariamente previsto nel decreto Poletti prima del suo passaggio in Parlamento, la conversione del rapporti di lavoro oltre il 20% in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, bensì una semplice sanzione amministrativa.
Qual è la differenza? Nel primo caso la sanzione irrogata al datore di lavoro rappresentava una tutela per il lavoratore, nel secondo caso ovviamente no. Tra l’altro non è neanche paragonabile per il datore di lavoro il “costo” di un lavoratore a tempo indeterminato con una semplice sanzione amministrativa. Non è un caso che SC e NCD abbiano festeggiato la modifica in questione come una personale vittoria.
Anche il limite dei 36 mesi è sostanzialmente inconsistente. Dopo i 36 mesi, il datore non avrà nessun interesse a proporre al lavoratore un contratto a tempo indeterminato perché potrà, più facilmente, stipulare un altro contratto a termine con un altro lavoratore, per altri 36 mesi e comprensivo di tutte le proroghe e i rinnovi annessi.
Senza considerare che anche per quanto riguarda il limite dei 36 mesi, sono previste numerose eccezioni, tali da creare un limite sostanzialmente irrilevante.
Questo è il quadro generale attuale. Cosa ci chiedeva l’Europa invece?
La clausola 5 della direttiva 99/70/CE “per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” stabilisce che gli Stati membri debbano introdurre una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
La prima parte del Jobs Act elimina il riferimento alle “ragioni obiettive”, non pone limiti al numero di rinnovi e presenta decine di eccezioni al limite dei 36 mesi. La violazione della direttiva è netta.
Basti considerare che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nel caso “Angelidaki”, ha in passato condannato la Grecia per la violazione della stessa direttiva, nonostante la legge greca fosse sicuramente più garantista della nostra. La legge greca in tema di contratti a termine, infatti, prevedeva acausalità, limite di 24 mesi (1 anno in meno rispetto ai nostri 36 mesi), intervallo di 4 mesi tra un rinnovo e l’altro (a differenza dei nostri 10 o, al massimo, 20 giorni), reclusione fino ad un anno come sanzione (al posto di sanzioni di natura civile e amministrativa).
Il risultato è un progressivo smantellamento delle tutele e delle garanzie del diritto del lavoro, che ha da sempre rappresentato la risposta allo squilibrio genetico del rapporto lavorativo, in cui inevitabilmente il lavoratore rimane vittima del potere di ricatto del datore di lavoro.
Si dirà “il posto fisso è monotono”, per dirla con Monti, o “l’articolo 18 è superato”, come ha recentemente affermato Federica Guidi, neo ministra per lo sviluppo economico. Fatto sta che questa progressiva precarizzazione non è stata accompagnata neanche da un intervento deciso sul mercato del lavoro, magari generalizzando l’accesso alla cassa integrazione o pensando ad un reddito minimo garantito.
Se l’obiettivo, come più volte dichiarato dallo stesso Renzi sin dalle primarie del 2012, è quello della “flexicurity” (il connubio tra “flessibilità” e “sicurezza” che significa essenzialmente aumentare la flessibilità in entrata e in uscita dal rapporto di lavoro, ma incrementare simmetricamente le tutele nel mercato del lavoro, agendo su ammortizzatori sociali, servizi per l’impiego e per la riqualificazione professionale), nelle ultime riforme si vede solo flessibilità e non sicurezza.
Questo sembra non interessare al governo, non convinto della possibilità di rilanciare l’economia garantendo stabilità
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Conoscendo la moralità e l'etica della maggior parte dei datori di lavoro, Renzi e il suo gruppo di governo, come possono dare in pasto i lavoratori a questi lupi famelici. Ma... ci sono o ci fanno!!!!!