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Chiude la raffineria di Gela? Una storia trentennale in Europa

A Gela gli operai sono sul piede di guerra e bloccano l’accesso allo stabilimento nel tentativo di contrastare la minaccia di chiusura del petrolchimico. Vogliono far sentire la propria voce anche in vista del progettato incontro romano tra sindacati e dirigenti dell’ENI.
Contro l’azienda sono scattate anche le roboanti minacce crocettiane, compresa quella di chiudere i pozzi attivi nel territorio e nel mare siciliani (anche se le royalties sulla modesta quantità di petrolio estratta in Sicilia nel 2012 hanno portato 19 milioni di euro al bilancio regionale in rosso per oltre 2 milardi di euro).
Non è mancata la voce della Chiesa che, per bocca del vescovo di Piazza Armerina, ha chiesto ai dirigenti della società di non voltare la faccia dall’altra parte, dinanzi ad una situazione così drammatica.
L’ENI, infatti, ha ventilato il suo parziale disimpegno denunciando gravi perdite nel settore della raffinazione a causa di un eccesso della capacità di raffinazione in Europa dell’ordine di 120 milioni di tonnellate di prodotto raffinato .
Questi gli avvenimenti dei nostri giorni, ma la situazione del mercato petrolifero è molto più complessa di quanto la stessa cronaca non lasci trasparire.
Sono tanti i fattori che bisogna tenere presenti, elenchiamo i principali:
La conversione degli impianti di riscaldamento da gasolio a gas metano, e quella delle centrali elettriche da olio combustibile (frazione del petrolio) a metano, ha drasticamente ridotto il consumo di prodotti di raffinazione per questi scopi .
Vi è poi la diminuzione dei consumi di prodotti petroliferi in Europa determinata dal calo della produzione industriale per la persistente crisi economica che, ormai da un lustro, attanaglia l’economia europea.
Non ultimo per importanza, vi è il risultato delle varie politiche di risparmio energetico che, dove più dove meno, sono in corso di attuazione.
Dalla coibentazione delle case e dei frigoriferi alle lampade a basso consumo, dal miglioramento dell’efficienza del parco auto al recupero di calore nei grandi impianti di condizionamento, alla produzione di energia da fonti rinnovabili, si tratta di decisioni che hanno come sacrosanto obiettivo la riduzione della dipendenza e quindi del consumo di combustibili fossili ovvero carbone e, soprattutto, petrolio.
La chiusura delle raffinerie era una delle conseguenze più ovvie della politica di risparmio e miglioramento della efficienza energetica.
Ma c’è un altro elemento di carattere strategico. Le raffinerie sono di proprietà e nella gestione di multinazionali che hanno come orizzonte il mondo, e non singole situazioni locali, e che investono cifre inimmaginabili per noi comuni mortali in vista di profitti altrettanto smisurati.
Da parte dei petrolieri non esiste alcun legame “affettivo” con la regione che ne ospita gli impianti, con i suoi problemi di occupazione o di tutela dell’ambiente.
Anche incentivi economici, finanziamenti, sgravi fiscali hanno scarso impatto sulle loro decisioni. Certo, se vi è la possibilità di ottenerli, non vi rinunciano e mettono in campo avvocati e lobbies che “curano” i politici per ottenerle.
Di più. Gli impianti di raffinazione sono solo una piccola parte dell’affare.
Come ebbe a dire, molti anni fa, un top manager di una delle più grandi compagnie petrolifere: “I guadagni si fanno comprando il greggio (in Arabia, in Iran, in Venezuela . . .) e vendendo i prodotti (in Europa USA . . .)”. Tra l’acquisto e la vendita c’è di mezzo la raffinazione, ma “per una compagnia petrolifera le raffinerie sono solo un male necessario”.
Il costo di raffinazione va minimizzato il più possibile, tanto che “se la raffineria di un concorrente ha costi inferiori a quella nostra, conviene raffinare il greggio presso di essa e chiudere la nostra”.
In questa ottica si spiega la chiusura delle raffinerie e la loro trasformazione in depositi, utilizzandone solo i serbatoi, un processo che le multinazionali del petrolio portano avanti non da oggi in tutta Europa, almeno dagli anni ’80.
In contemporanea si costruiscono impianti moderni e colossali presso le zone di produzione (persino in Iraq, con la “guerra al terrorismo” in corso.) In quei paesi, fra l‘altro, non vi sono né problemi sindacali né di protezione dell’ambiente.
Questo rende ancora meno conveniente la raffinazione ed il trasporto del greggio in Europa. Con i nuovi giganteschi impianti vengono conseguite economie di scala  e costa molto meno trasportare solo i prodotti finiti anziché il greggio.
In Europa gli impianti di raffinazione che, per adesso, hanno la possibilità di  restare in funzione sono quelli che hanno situazioni di particolare vantaggio per la posizione, per l’alto valore aggiunto che sono in grado di offrire, per le tipologie di trasformazione che sono in grado di effettuare.
L’Italia finora è stata relativamente “risparmiata” anche per questi motivi, ma questa condizione di privilegio (se così vogliamo definirla) per molte situazioni è finita da un pezzo e l’ENI sta mettendo in discussione anche la sua presenza non solo a Gela ma anche a Priolo, Taranto, Livorno, Porto Marghera…
Gli operai lottano oggi per conservare il posto di lavoro in una società che ha depauperato il territorio di altre fonti di sopravvivenza (agricoltura, pesca). Forse sarebbe più realistico muoversi, anche a livello politico, regionale e nazionale, per cercare alternative che siano meno distruttive dell’ambiente e più remunerative per il territorio, che oggi riceve le briciole dei profitti dei petrolieri.
Dobbiamo augurarci che non ricadano su noi contribuenti i pesantissimi costi del recupero ambientale, dall’eventuale dismissione dell’impianto ai danni alle falde acquifere al ripristino del terreno coltivabile. E si potrebbe continuare.

Argo

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