Era il giugno del 1943, mancava ancora un mese allo sbarco degli Alleati in Sicilia, le bombe piovevano dal cielo e l’esodo era cominciato: la gente che viveva in città si spostava nei paesi, ma non sempre aveva fortuna.
Erano proprio questi infatti i bersagli prediletti dell’aviazione, e alcuni di quelli che vennero da Catania per sfuggire alle bombe persero la vita proprio sotto di queste. Fu quello che successe ai vicini di casa della signora Maria, che a quei tempi era solo una bambina.
La sua famiglia decise quindi di lasciare la propria casa alla ricerca di un rifugio più sicuro nelle campagne dell’Etna; così partirono da Nicolosi, a piedi, coi muli carichi delle masserizie: vestiti, coperte, pentole, galline… tutto lo stretto indispensabile eccetto il carbone, che potevano fare direttamente sul posto usando le piante di ginestra.
Vennero accolti da alcuni loro compaesani in una casupola costruita con pietre a secco, tre o quattro famiglie tutte insieme, una ventina di persone in tutto. Da lì, a 6 o 7 chilometri dal paese, era ed è tuttora visibile il golfo di Catania.
Davanti alla casa c’era un ovile, anche questo costruito con i muretti a secco, e i pastori -che ci portavano le pecore- la mattina facevano la ricotta.
Per sopperire alla mancanza del frumento coltivavano l’irmanu (segale) che ai tempi era tradizionale della cerealicoltura di montagna.
Ogni giorno, la sorella della signora Maria andava al paese per avere notizie del fratello Francesco che era soldato.
Questi spostamenti non erano una cosa insolita: nonostante la paura, molte altre persone scendevano alla ricerca di informazioni sull’evolversi del conflitto. Nelle campagne, infatti, spesso non si aveva nulla da fare, e le giornate scorrevano lente senza che accadesse nulla di particolare.
Un giorno arrivarono due soldati, disertori dell’esercito italiano inseguiti dai tedeschi. Quelli della casupola li nascosero, sviarono i tedeschi, dopodiché diedero ai due vestiti civili da mettere al posto dell’uniforme.
Un altro giorno invece un aereo passò radente al suolo e si sentì un rumore come se qualcuno “ittassi cuticchiùna” (buttasse sassi), ma poi trovarono delle pecore morte e capirono che quelli che avevano sentito non erano pietre ma proiettili.
Quando infine giunse la voce che stavano arrivando gli americani tutti decisero di tornare nelle rispettive case, per evitare che, abbandonate com’erano, venissero occupate o saccheggiate.
Si aveva dunque fretta di tornare, ma le galline, che inselvatichite volavano a dormire sugli alberi, non ne volevano sapere di scendere. Qualcuno, addirittura, si rifiutò di tornare al paese senza prima aver ripreso ‘a puddastra.
Proprio in quei giorni il signor Francesco si trovava dislocato nella zona sud orientale della Sicilia.
La catena di comando si era spezzata, e l’ultimo ordine era stato quello di “spogliare” i soldati di modo che non fossero facilmente individuabili dai nemici. Quelli che conoscevano la zona o avevano casa nelle vicinanze si erano già dati alla macchia.
Per procurarsi abiti civili il signor Francesco – allora ufficiale al comando della compagnia dei servizi – che aveva contatti con i contadini fornitori di generi alimentari, portò da loro i soldati che come lui non avevano un posto dove andare e sarebbero stati in pericolo se fossero andati in giro in uniforme.
Non appena egli ebbe sistemato l’ultimo soldato, si trovò davanti gli americani.
Passò due anni in un campo di concentramento in Marocco, e quando tornò in Sicilia la guerra era finita da un pezzo.
Arrivato a casa, il signor Francesco raccontò che, non appena aveva saputo dell’arrivo degli americani, era andato alla spiaggia in cui erano soliti fare le esercitazioni e aveva scoperto che lo sbarco era avvenuto proprio lì.
Le loro esercitazioni, che si basavano appunto sul contrasto a un eventuale tentativo di sbarco, erano state interrotte solo qualche settimana prima.
Se così non fosse stato, probabilmente sarebbe accaduto ciò che avvenne sulla
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