La processione del 3 febbraio che apre le celebrazioni in onore di s. Agata ne ha offerto una sostanziale prova: il numero dei gruppi che vi partecipa continua a crescere in modo esponenziale e quasi tutti ci tengono quasi a ‘firmare’ la loro presenza con uno stendardo che, in qualche modo, ne sintetizza l’identità.
Rivista a distanza di qualche anno, questa processione si conferma dunque come una sorta di rappresentazione fotografica della società catanese.
Per natura sua, la processione per l’offerta della cera è sempre stata il momento in cui le istituzioni cittadine rendono omaggio alla Patrona ma, mentre fino ad una decina di anni addietro essa obbediva ad uno schema fisso e quindi prevedibile, da un po’ di tempo essa ha assunto una configurazione più ricca e articolata da cui si possono estrarre alcune sommesse riflessioni sociologiche.
Alcuni anni fa avevamo notato la crescita del numero dei cosiddetti ordini cavallereschi e, sia pure con una certa ironia, lo avevamo interpretato come un’autorappresentazione della borghesia delle professioni e degli affari più o meno nuova ma sempre rampante.
La novità adesso è data dalla presenza esplicita delle periferie della città attraverso varie sue componenti, tutte chiaramente rese identificabili da uno stendardo: gli istituti comprensivi di quartiere, i gruppi di volontariato e, su un versante più strettamente religioso, le parrocchie e le rinascenti confraternite.
Siamo rimasti particolarmente colpiti dal numero delle insegne delle parrocchie di periferia e dall’altrettanto eloquente assenza di quelle del centro. In sé, non si tratta di un fatto del tutto nuovo: il popolo cristiano ha sempre partecipato alla processione, ma alla spicciolata e in forma anonima. Adesso invece, è come se la periferia volesse affermare la propria presenza in massa e in modo ben visibile, quasi a contrappesare, sia pure involontariamente e senza una intenzione polemica, la presenza, finora esclusiva, dei ‘poteri’ politici, economici, intellettuali.
Senza voler fare del sociologismo d’accatto, si ha la sensazione che queste periferie vecchie e nuove sentano il bisogno di dire “ci siamo anche noi”, di trovare una loro rappresentanza diretta, intanto per scrollarsi la stereotipata immagine di essere solo il crogiolo della delinquenza più o meno organizzata, continuamente e quasi esclusivamente sottolineata dai mass-media, e quindi per affermare che anche loro sono in grado di darsi un’identità non precostituita.
Non è che quella immagine non sia vera, solo che non è l’unica e certamente non è esaustiva. Chi le conosce, infatti, sa bene che le scuole e le parrocchie di questi quartieri sono gli unici centri di aggregazione e che dentro e attorno a loro, nella relativa presenza delle altre istituzioni, circolano tante esperienze educative, sportive, di solidarietà -oltre che religiose naturalmente-, che magari non hanno grandi pretese ma che sono in grado di offrire dei modelli di vita che sono una preziosa risorsa, soprattutto per i più giovani.
Ma questa massiccia presenza può essere letta anche come una domanda forte e insistente rivolta a chi riveste ruoli di responsabilità, in tutti i sensi, una domanda di rappresentanza seria e non strumentale dei
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Interessante questa osservazione sugli stendardi di parrocchie e gruppi di periferia come esigenza di essere presenti e ascoltati. Da approfondire