La Catania che cerca di risorgere dalle macerie del terremoto del 1693 non si limita a rinnovare il proprio tessuto urbanistico ma costruisce la propria rinascita anche sulla vitalità culturale. Sulla cultura e quindi anche sulla musica investono le classi dirigenti del primo settecento ed è questo il conteso in cui si muove l’analisi non solo musicologica ma ampiamente storica del volume di Maria Rosa De Luca, Musica e cultura urbana nel ’700 a Catania, edito da Olschki nella collana “Historiae Musicae Cultores”.
Presentato venerdì scorso nella chiesa monumentale di san Nicolò l’Arena, con una tavola rotonda moderata da Giancarlo Magnano San Lio, il saggio della docente di musicologia e storia della musica presso il dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania è stato seguito da un concerto per organo, archi e voci che puntava a riprodurre, per il pubblico presente, le sonorità create da quest’organo spettacolare in grado di sostituire gli strumenti a fiato ma anche di dialogare con altri strumenti e con le voci umane, compresa quelle dei ‘castrati’ che sostituivano le donne non ammesse sulle scene. Per riprodurre al meglio queste particolarità, al concerto di venerdì è stato invitato a partecipare anche un sopranista.
Metodo interdisciplinare e studio dell’interazione tra spazio urbano e pratiche sociali e culturali, queste le caratteristiche del testo di De Luca evidenziate nell’introduzione del rettore dell’ateneo catanese, Giacomo Pignataro, che ha offerto anche spunti di riflessione sul presente e sul futuro della nostra città e della nostra università, sottolineando il ruolo che la cultura può aver nella auspicata rinascita di Catania. .
La ricchezza della vita musicale della Catania del ‘700, ha affermato, derivava non solo dalla presenza di musicisti di talento ma da tutta un’organizzazione sociale che favoriva lo sviluppo di questa nobile arte. E se è vero che le élite cittadine cercavano, attraverso il controllo sull’attività musicale, di definire la gerarchia dei poteri, tutta la città riceveva comunque un beneficio.
La città descritta in questo libro -ha sottolineato Orazio Licandro, assessore ai Saperi e alla Bellezza del comune di Catania- è una città piegata dal trauma del terremoto ma non sconfitta, è una città in cui potere civile e religioso si contendono anche aspramente il controllo del territorio, ma è anche lo spazio in cui fiorisce quel patrimonio culturale che, in seguito, non abbiamo saputo difendere.
Anch’egli ha ribadito che il messaggio più significativo che possiamo trarre da questa ricerca riguarda soprattutto il ruolo della cultura, perchè “attraverso le politiche culturali, una visione alta e prospettica delle stesse, si dipingono gli orizzonti che possono costruire e plasmare il volto della città”
Molti e vari gli spunti emersi nell’intervento di Giuseppe Giarrizzo: la speranza che il confronto tra studiosi attivi “un dialogo interno che consenta di uscire dal carcere della ripartizioni e delle gerarchie accademiche”, l’isolamento culturale della Sicilia, estranea all’Europa e all’Italia stessa per colpa di una politica che ha creduto di realizzare un “leghismo” siciliano, la questione dei linguaggi, tra i quali quello musicale si distingue per varietà delle forme e impressionante flessibilità espressiva, e senza sostanziale differenza tra linguaggio sacro e linguaggio profano.
I dati contenuti in questo testo, a parere di Giarrizzo, ci consegnano un processo di proiezione culturale e ci permettono di indagare sul rapporto tra cultura consumata e cultura prodotta, ponendo il problema di come la comunità vivesse il messaggio musicale.
Il bisogno di partecipare alla rappresentazione aveva fatto sì che, per esempio a palazzo Biscari e poi dentro l’Università, il musico scendesse dalla galleria collocata in alto per essere inserito all’interno della struttura lignea smontabile che veniva allestita per le rappresentazioni.
La fruizione del linguaggio musicale avveniva anche nella musica processionale e attorno alle processioni si mescolavano elementi di pietà e ragioni economiche, essendo i percorsi determinati dal prestigio delle famiglie più in vista e -a loro volta- determinanti un aumento del valore monetario del terreno attraversato.
“Un testo di musicologia storica in cui paradossalmente si parla poco di musica”, così Franco Piperno, docente di musicologia e storia della musica all’Università La Sapienza di Roma, definisce il libro di De Luca. E ancora, un testo che segue una “nuova impostazione metodologica che sposta l’attenzione dall’individuo (il compositore) alla comunità”.
Ne viene fuori il ritratto non di un musicista ma di Catania, una città in cui si verifica un importante sviluppo dell’attività musicale, bloccato però -nel 1759- da contrapposizioni politiche e sociali.
I quattro ‘luoghi’ centrali che caratterizzano la città, il Monastero, l’Università, la Cattedrale, Palazzo Biscari, si contrappongono l’uno all’altro invece di collaborare e la gerarchia ecclesiastica, caratterizzata da un rigido moralismo, per fermare la diffusione delle opere profane (ad esempio di Metastasio) interrompe un’espansione a cui avevano contribuito professionisti provenienti da fuori.
In questa circolazione di artisti rientrano due dei più importanti musicisti della Catania del settecento: Giusepe Geremia, catanese che va a studiare a Napoli per poi tornare in patria e Vincenzo Tobia Bellini, abruzzese che -dopo aver studiato anche lui a Napoli- viene a Catania.
Con riferimento al concerto che sarà eseguito nella serata, Piperno sottolinea i condizionamenti che stanno alle spalle delle composizioni musicali, condizionamenti finanziari e di tradizione esecutiva locale oltre che “ambientali”. Comporre musica per questo organo, che “mi sovrasta e mi soggioga”, e per una chiesa di queste dimensioni non è come comporla per il teatrino dei Biscari, spiega.
Bisogna infatti tenere conto dell’architettura e quindi del riverbero, cioè dei secondi che la musica impiega per arrivare in fondo e tornare indietro. Anche da questo fattore è caratterizzata la particolare sonorità locale, il “suono di Catania”.
La chiesa di San Nicolò viene definita da Maria Rosa De Luca, autrice del libro, una ‘scena urbana‘ in cui si inserisce l’organo, fatto costruire dai monaci proprio per qualificare lo spazio-chiesa.
Sono stati loro, i committenti, a volere che l’organo fosse una assoluta novità, una macchina proporzionale alla grandezza del tempio e capace di stupire per i suoi requisiti tecnologici. E così fu. Donato del Piano realizzò infatti uno strumento che poteva non solo accompagnare la liturgia ma anche “concertare con se stesso e concertare con voci e strumenti”, sostituendo intere parti dell’orchestra, i fiati.
Riprodurre la percezione dell’organo raccontata dai viaggiatori del settecento e dell’ottocento è stata una delle finalità del concerto seguito alla presentazione del libro. Quattro archi e un coro hanno dialogato con l’organo su musiche di Geremia e Bellini, nonno e nipote. Il coro è stato per necessità collocato nella ‘gelosia’, non potendo la cantoria – per assenza di collaudo- ospitare i cantori anche se in numero inferiore ai 24 che poteva contenerne nel settecento.
L’esecuzione è stata di altissimo livello e Argo ve ne ripropone un segmento, da non perdere.
Link a 3 clips del concerto (ripresa di bassa qualità)
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