Prima della riforma del 1992 la gestione delle Unità Sanitarie Locali era affidata ai Comitati di Gestione, in rappresentanza di partiti di maggioranza e di opposizione, le cui delibere, previamente controllate da un organo esterno – prima provinciale, poi regionale – diventavano esecutive solo dopo il vaglio dell’organo di controllo.
Gli autori del libro sottolineano gli aspetti perversi della riforma che ha trasformato le strutture sanitarie in aziende, con a capo un direttore generale nominato dal governo regionale, espressione quindi solo della maggioranza, che risponde al governo regionale sulla base di obiettivi che gli vengono assegnati.
Il controllo avviene quindi alle scadenze definite dal governo. Non esistono più da tempo le Commissioni di controllo provinciali o regionali (abolite anche per gli atti dei Comuni) e si sottolinea come il collegio dei sindaci, unico residuo di pseudo controllo, non ha i poteri della ex commissione di controllo ed è composto da 5 dipendenti interni, 2 dei quali nominati dalla Regione (lo stesso potere politico che nomina il direttore) e 3 da altri organismi politici. L’obbligo di denuncia da parte del collegio dei sindaci scatta solo in caso di fondato sospetto e gravi irregolarità.
Con l’attuale organizzazione – si sottolinea nel testo – i poteri del direttore sono quindi aumentati, potendo egli nominare il direttore sanitario, il direttore amministrativo e i primari in base ad un rapporto di fiducia; esternalizzare i servizi di pulizia, assistenza e preparazione pasti; assumere a tempo determinato anche le figure di cui si sa non se ne può fare a meno. Tutto funzionale alla gestione del potere.
A riprova di come la diversa organizzazione sanitaria non abbia ridotto i casi di malasanità, ed anzi abbia aumentato gli aspetti perversi della aziendalizzazione e del mantenimento di privilegi e inefficienze, sono riportati nel libro fatti eclatanti:
A questo proposito si fa l’esempio dell’ospedale di Piazza Armerina dove 35 posti letto occupati danno lavoro a 300 dipendenti, nonostante a 30 km (a Enna) sia presente un ospedale ben più grande. Ma le stranezze non finiscono qui. Nonostante le dimensioni ridotte il pronto soccorso di quell’ospedale lavora tantissimo: 20.000 casi all’anno, 54 al giorno in un comune di appena 22.000 abitanti: “O Piazza Armerina – si legge – è una città particolarmente sfortunata, dove tutti scivolano e hanno incidenti, si fanno male in continuazione, oppure il dato è gonfiato”. Altro dato riguarda Catania: “attorno all’Etna, in un tratto di strada di appena 30 km, da Paternò a Bronte, ci sono 3 ospedali con 3 ostetricie, 3 chirurgie, 3 pediatrie”.
Tuttavia sono tanti i siciliani che per curarsi scelgono strutture sanitarie del centro-nord, a volte anche per interventi di routine: 194 milioni è il disavanzo della Sicilia a causa degli esodi in altre regioni. Ma in fin dei conti non sembra che la scelta sia priva di significato, visto che studi hanno riscontrato che chi resta in Sicilia per curarsi ha una probabilità doppia (4,97%) di morire rispetto a chi abita al nord (2,64%).
Un capitolo a parte viene dedicato alle case farmaceutiche e alle loro pratiche di “comparaggio” con i medici, schedati a seconda della loro disponibilità ad essere influenzati, grazie a viaggi in luoghi esotici o remunerazioni stratosferiche per brevi conferenze. Il detto “Sogniamo di produrre farmaci per le persone sane” è profondamente attuale. Il DSM, il manuale usato dagli psichiatri per fare diagnosi, è passato da 80 a oltre 400 malattie negli ultimi cinquant’anni. Ogni giorno una campagna promozionale per incentivare la sensazione di doversi curare (dalla menopausa alla cellulite), e le strategie per combattere la concorrenza del farmaco generico, la medicalizzazione della gravidanza, il business della procreazione assistita.
E poi gli stipendi dei direttori generali, dei capidipartimento, le auto blu a loro disposizione e molto altro ancora in questo libro, interessante perché ricco di fatti concreti, a cui spesso fa riferimento, ma che non sembra indicare una soluzione in grado di invertire la rotta, al di là della auspicata attività di controllo da parte di un organismo terzo, l’introduzione della responsabilità patrimoniale dei direttori generali e il ruolo della Corte dei Conti, che però interviene solo dopo che gli atti hanno prodotto i loro effetti e con forze numeriche inadeguate.
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