“260.000 minori -in Italia- sotto i 16 anni coinvolti in attività lavorative; 30.000 a rischio di sfruttamento”.
E’ questa la notizia che è apparsa su molti giornali, fra cui la Sicilia, a seguito della diffusione dei dati preliminari di una ricerca realizzata dall’associazione Bruno Trentin e da Save The Children .
Alla base dell’indagine vi è l’ipotesi che il lavoro minorile sia un fenomeno tutt’altro che scomparso, anche se si tratta di un insieme di esperienze molto eterogenee che occorre differenziare, per focalizzare l’attenzione sulla relazione con:
• la dispersione scolastica;
• i rischi di esclusione e di marginalizzazione sociale;
• l’inadeguato investimento sui minori da parte delle famiglie che vivono ai margini della società ;
• la riproduzione dello squilibrio delle posizioni di partenza sui destini individuali, che ha come esito -per i minori svantaggiati- l’ingresso, da adulti, nel circuito dei lavori poveri .
In attesa della pubblicazione integrale e definitiva dei risultati della ricerca, esprimiamo qualche perlessità sui dati già pubblicati e su alcuni dei criteri adottati per la definizione di ‘lavoro minorile’.
Ci chiediamo innanzi tutto quanto possa essere valido presentare i dati dei minori (14-15 anni) che aiutano i genitori nella piccola impresa a gestione familiare (41%) o nei lavori di casa (33%) o nella cerchia di parenti e amici (13%), senza differenziarli per numero di ore (a settimana) e giorni (all’anno).
Queste informazioni sono presenti in una tabella separata (tab. 3) che però, a sua volta, non chiarisce la gravosità dell’impegno, perché non incrocia i dati relativi ai giorni impegnati nell’anno con il numero di ore giornaliere. Non sappiamo, quindi, quanti di quelli che lavorano da più di 6 mesi (27%) siano impegnati per un numero di ore giornaliere non inferiore a 5 e più o meno tutti i giorni. Viene, infatti, considerata attività lavorativa quella svolta anche per un solo giorno nell’anno e/o fino a 2 ore.
Viene, inoltre, classificata come attività lavorativa continuativa quella svolta per almeno 3 mesi in un anno, almeno 1 volta a settimana e almeno 2 ore al giorno. La definizione di ‘attività continuativa’ ci sembra eccessiva per i casi in cui il tempo di lavoro sia così breve.
Anche il dato sulla interferenza scolastica non ci dice granché, perché anche se il 46% “lavora ANCHE nei giorni di scuola”, questo dato dovrebbe essere correlato al numero di ore lavorate nei giorni SOLO scolastici. Tanto è vero che, nella ricerca si evidenzia che 2/3 dei ragazzi concilia studio e lavoro “senza problemi”.
La norma (legge n. 977del 1967) sancisce che in Italia possono lavorare i minori al di sotto dei 16 anni solo se si tratta di attività lavorative di carattere culturale, artistico o pubblicitario o comunque nel settore dello spettacolo, e purchè le attività siano condotte a determinate condizioni.
E’ altrettanto vero, tuttavia, che la nostra cultura – in passato ancora più diffusa – utilizza ancora l’esperienza lavorativa all’interno di una cerchia protetta (familiare/amicale) come stimolo di crescita per il minore, affiinchè comprenda il valore del denaro, la fatica necessaria a guadagnarlo, l’importanza dello studio e il proficuo utilizzo del tempo libero. Ovviamente tutto ciò è possibile solo se l’attività non pregiudica il normale completamento obbligatorio del corso di studi.
Quanto all’area a rischio di sfruttamento, la ricerca ha preso in considerazione quei ragazzi che lavorano di sera e/o svolgono un lavoro continuativo in presenza di almeno due delle seguenti condizioni: interruzione della scuola per lavorare, il lavoro interferisce con lo studio, il lavoro non lascia tempo per divertirsi con gli amici e per riposare, il lavoro viene definito moderatamente pericoloso. Pertanto diventa a rischio di sfruttamento chi distribuisce pizze a domicilio e chi lavora di sera in un pub. Anche in questo caso i parametri ci sembrano troppo ampi.
Si precisa nell’introduzione del rapporto che “la questione non è se e quanto il lavoro minorile sia buono o cattivo (…) piuttosto riguarda in che modo decifrare di questo fenomeno le dimensioni che ne fanno un’esperienza difficilmente reversibile per un individuo e fortemente condizionata da una specifica eredità sociale”.
Questo ci sembra in effetti il punto, individuare quanto l’accesso precoce al mondo del lavoro sia determinato da disagiate condizioni sociali e quanto condizioni in modo definitivo il futuro del ragazzo. Ed ecco perchè è necessario soprattutto considerare i dati relativi all’evasione scolastica, perché i due fenomeni sono quasi sempre interconnessi.
Osservando a tal proposito i dati sull’evasione e l’abbandono scolastico pubblicati dall’Ufficio Scolastico Provinciale di Catania, rilevati nell’anno scolastico 2011/12 si evidenziano a Catania circa 200 casi di evasione scolastica: (33 nella scuola primaria e 169 nella secondaria di primo grado); oltre 800 segnalazioni degli insegnanti al Servizio sociale, che hanno determinato circa 100 casi di minori seguiti dal Tribunale per i minorenni.
Anche la norma (legge n.29 del 2006) che ha innalzato a 16 anni l’obbligo di istruzione e l’età di accesso al lavoro anche per il contratto di apprendistato, senza modificare il percorso della scuola secondaria, ha creato l’occasione di nuova evasione scolastica perchè spesso l’allungamento viene visto come tempo non produttivo di permanenza a scuola, specie se si frequentano i primi due anni di scuola superiore senza conseguire alcunché.
I dati sull’evasione non sono, però, in crescita sebbene sia grave che permanga una percentuale inaccettabile di ragazzi che non consegue nemmeno il titolo di licenza media, spesso non per andare a lavorare ma per rimanere inattivi.
Ci ripromettiamo pertanto di torrnare sull’argomento dopo aver sentito la Presidente del Tribunale per i minorenni, anche per approfondire la questione del lavoro minorile e dell’evasione scolastica tra i giovani che entrano in contatto con questo tribunale e per avere i dati sulla criminalità minorile disaggregati per quartiere.
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