L’Italia è il fanalino di coda in Europa
Se in Italia l’arrivo dei migranti è percepito (e contrabbanmdato) come emergenza, il motivo sta nel fatto che gli arrivi sono sempre in numero maggiore rispetto alla capacità di accoglienza che il nostro paese mette in campo.
Anche nella primavera del 2011, quando le proteste del Nord Africa hanno provocato un aumento degli sbarchi sulle nostre coste, in realtà le domande presentate in Italia furono 37 mila, di poco superiori a quelle del 2008, quando le richieste si fermarono a 31 mila.
Della questione si occupa si occupa il blog dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione con la pubblicazione di un’intervista dell’Osservatorio Irak a uno dei componenti del direttivo nazionale della stessa associazione, Gianfranco Schiavone, di cui riproponiamo parte del contenuto.
Costretta ad accogliere le direttive europee introdotte a partire dal 2005, l’Italia ha dovuto rapidamente adeguarsi e, in alcuni casi,”ha introdotto diverse disposizioni che sono più favorevoli rispetto agli standard minimi indicati dalle direttive europee”.
Ci sono tuttavia, secondo Schiavone, molti aspetti negativi nel nostro sistema. Innanzi tutto, “dal punto di vista legislativo gli interventi sono scarsamente coordinati tra loro, e si avverte una grande frammentazione della normativa.
“Il punto più delicato di tutta la vicenda italiana sull’ asilo non riguarda tanto la procedura per la richiesta, quanto piuttosto ciò che accade dopo. In Italia manca completamente, o quasi, un programma di supporto all’ integrazione sociale dei rifugiati.
“Quello che esiste è limitato alla possibilità – per un numero assolutamente ridotto di persone – di usufruire di un percorso di accoglienza all’interno del ‘Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati’, lo SPRAR. […] Ma questa è solo un’eventualità che non riguarda tutti”.
Per chi non riesce ad accedere allo SPRAR, è previsto un teorico accesso all’assistenza sociale. La persona che esce dal ‘CARA’ (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) con il proprio documento in tasca gode in teoria degli stessi diritti di un cittadino italiano. Ma sia per la carenza del nostro sistema di welfare, sia perché queste persone hanno esigenze molto diverse rispetto a quelle di un cittadino italiano che si rivolge ai servizi sociali, “di fatto vengono abbandonati a se stessi”.
“I rifugiati avrebbero bisogno di un intero programma di start up: dovrebbero imparare la lingua, essere orientati al lavoro e cercare un’abitazione. Nessun servizio sociale di nessun comune è in grado di farsi carico di queste persone. Chi improvvisamente si trova fuori dal CARA, senza casa né lavoro e senza accesso allo SPRAR, entra in un vortice di esclusione sociale che si traduce – ad esempio – nelle occupazioni di case abbandonate. Molti vagano da un dormitorio all’altro, in giro per le varie città d’Italia”.
Dai dati contenuti nello studio “Il diritto alla protezione”, del 2011, emerge che la percentuale dei rifugiati che dopo il riconoscimento dello status non hanno avuto accesso alla “seconda accoglienza” è pari al 70%.
Non si intraccedono miglioramenti significativi. Ad esempio, nonostante il livello di offerta del sitema SPRAR sia cresciuto dai 3,400 posti di un paio di anni fa agli attuali 5,000, l’aumento delle disponibilità rimane troppo lento rispetto alle esigenze.
“Quello che non si comprende è per quale ragione un modello fortemente collaudato – parliamo di 10 anni di esperienza – ed estremamente efficiente per quello che riguarda sia il rispetto dei diritti delle persone che il contenimento dei costi, non debba essere sfruttato e implementato. Non si capisce quale sia la scelta politica alla base di questa gestione. È come se si volesse mantenere il sistema sempre al di sotto delle sue potenzialità“.
E’ difficile dire se ciò sia dovuto a volontà politica o a incapacità programmatica. Molto probabilmente c’è dietro anche una grande disattenzione, dal momento che l’asilo non è materia di dibattito pubblico né di approfondimento da parte di nessun partito politico.
È come se l’Italia ancora rifugisse dalla programmazione sperando che si tratti di fenomeni che non si ripeteranno. Questo fa parte della fatica che il paese ancora fa nel percepirsi come meta di destinazione di rifugiati. È la progettazione di lungo periodo che manca, tutti i provvedimenti presi sono per oggi o addirittura per ieri, nessuno guarda al domani”.
Leggi il testo integrale dell’intervista
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