Bello il titolo dell’incontro: “Diritti, garanzie e benessere nell’Università pubblica”. Di questo infatti si tratta, o almeno si spera: non di un organismo burocratico tra i tanti, ma di un luogo di attenzione alle persone che lavorano e che studiano nell’Università, al loro benessere, ai loro tempi di vita, alla connessione tra la culttura accademica e la cultura del territorio.
“Fare dell’Università pubblica un posto migliore”: l’ha detto Antonio Pioletti e l’hanno confermato tutti gli intervenuti, anche la numerosa presenza sindacale.
Nelle more dell’istituzione formale è possibile impostare progetti di azioni positive, che recuperino le esperienze positive del passato, utilizzino il grande patrimonio delle competenze maturate finora e possano far prevedere una nuova dimensione, anche sperimentale, dell’intervento.
Degli esempi? Ne sono stati fatti due, significativi.
Si potrebbero creare – proposta antica, mai realizzata – asili per i figli delle dipendenti e delle studentesse (non dimentichiamo che la componente femminile è maggioritaria in ambedue gli ambiti).
Si potrebbe impiantare un Centro Studi di Genere che recepisca le indicazioni europee in materia, e che si ponga come avanguardia in una Sicilia che è completamente priva di esperienze simili, e che affida la formazione sulle differenze alla sola iniziativa individuale di singoli (anzi, soprattutto singole) docenti, nonostante la diffusa consapevolezza che l’educazione al rispetto reciproco sia necessaria fin dagli anni dell’infanzia e per tutto il percorso scolastico.
In questo centro si potrebbero rileggere i curricula e le diverse discipline nell’ottica di genere; si potrebbe offrire alle studiose documentazione bibliografica, emerografica, iconografica e audiovisiva, e dare promozione, coordinamento e impulso alla ricerca; organizzare gruppi di studio; corsi, seminari, convegni tematici; fare attività di aggiornamento per professioniste e imprenditrici, e soprattutto per insegnanti di ogni ordine e grado; intraprendere azioni di sensibilizzazione e di raccordo con i gruppi organizzati di donne e con il tessuto culturale e associativo del territorio.
È ridondante ricordare quanto il nostro Paese sia arretrato in tema di valorizzazione di genere: il nostro 80° posto nella classifica del Gender Gap, o le raccomandazioni inevase della rappresentante della Cedaw-Onu ne sono testimonianza.
Questo è il punto di partenza, ma è inutile guardare al passato; possiamo decidere che oggi sia l’inizio di un nuovo percorso. Nel clima di violenza diffusa e di grave regressione culturale che caratterizza questa fase della vita del nostro Paese, potrebbe essere segno di sensibilità istituzionale, e stimolo per un’inversione di tendenza.
Nella “Proposta di istituzione di un Centro studi per la ricerca e la didattica di genere presso l’Ateneo di Catania“, avanzata dalle docenti Graziella Priulla, Rita Palidda e Rosa Maria Monastra, si legge che “per quanto riguarda la didattica, la maggior parte dei Paesi europei tiene conto del genere nel curriculum, dato che le politiche di pari opportunità sono uno degli obiettivi principali dell’Unione Europea fin dalla sua nascita”.
Ciò nonostante “dal profilo di competenze che lo Stato italiano suggerisce alle nuove generazioni sono attualmente cancellate le questioni di genere.
All’interno delle istituzioni si assume che contenuti e metodi della formazione siano neutri rispetto alle differenze, e che basti non nominarle per contrastare le disuguaglianze“.
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