Lo ha scritto Nils Christie, un criminologo norvegese che lo ha presentato a Catania, nella biblioteca del Tribunale, su invito di Area (Magistratura democratica, Movimento per la giustizia – Articolo 3).
Che la pena (‘pain’, sofferenza in inglese) non debba essere disumana ed affliggente è ormai una convinzione diffusa anche tra gli studiosi e gli operatori italiani del settore.
Eppure, come ha detto Simona Ragazzi, segretaria di Magistratura Democratica a Catania, nel suo
Non sono diverse solo le prigioni, in cui anche visivamente mancano gli alti muri di recinzione (eccetto un paio di massima sicurezza), è diversa la cultura e persino il linguaggio. Sono diversi i numeri, perchè in Norvegia è basso il numero complessivo degli abitanti e quello dei reclusi per abitante (70 ogni 100.000 contro i nostri 110). Ma soprattutto è diverso il contesto sociale.
Le statistiche d’altra parte confermano che i livelli di criminalità sono più alti nei paesi in cui maggiori sono gli squilibri sociali. La Norvegia ha avuto la fortuna- dice Christie- di essere un paese povero, con una società ‘orizzontale’ ed egualitaria, un forte controllo sociale basato sulla conoscenza diretta dei ‘vicini’ e un diffuso senso di fiducia. Ha quindi avuto un basso livello di criminalità.
Oggi però anche in Norvegia le cose stanno cambiando, perchè lo sviluppo economico del paese, basato ormai soprattutto sul petrolio, diviene sempre più convulso e disuguale, con una crescita del gap tra chi ha poco e chi ha molto, e con un aumento della criminalità.
Oltre alle diseguaglianze sociali, anche il trattamento inflitto ai detenuti influisce sulla crescita della criminalità. Più esso è mortificante per la persona, più cresce il crimine.
Piazza Lanza è una struttura sovraffollata, e anche il sovraffollamento determina un aggravamento dell’afflittività della pena. Zito esprime in particolare la preoccupazione che, in un periodo di crisi come il nostro, si corra il rischio di applicare la detenzione soprattutto alle persone socialmente più deboli.
Il motivo per cui molti detenuti non riescono ad accedere alle misure alternative al carcere, per esempio, spesso non è la rigidezza dei magistrati di sorveglianza, ma la difficoltà – per gli operatori- di trovare soluzioni di accoglienza all’esterno. E questo vale in particolar modo per i più deboli tra i deboli, le donne.
Per rispondere all’emergenza del sovraffollamento, l’amministrazione penitenziaria ha messo in campo anche l’idea del ‘regime aperto’, già utilizzata -per i reati non gravi- in gran parte dei paesi europei e applicato attualmente in Sicilia in sei istituti o in parte di essi.
Esso prevede che i detenuti trascorrano nelle celle solo le ore notturne, il resto del tempo viene trascorso fuori dalle celle svolgendo delle attività.
Si tratta di un cambiamento che Zito definisce storico, ma che presenta diverse difficoltà. Questo regime richiede infatti la condivisione da parte di tutti gli operatori del sistema ed esige, da parte dei detenuti, una assunzione di responsabilità, un ‘mettersi in gioco’ che fino ad ora non è mai stato a loro richiesto.
Si è arrivati a proporre questo modello non solo spinti dalle condanne ricevute dalla Corte Europea, ma anche per una esigenza di cambiamento presente tra gli operatori della giustizia. e sollecitata dallo stesso dettato costituzionale (art.27) . “ Non so se -aggiunge Zito- sia avvertito anche nella collettività, la cui scarsa responsabilizzazione è comunque una delle cause dell’insuccesso dell’azione penale nel nostro paese”.
Concordando sulla necessità di ridurre al minimo il ricorso all’azione penale (peraltro costosissima), Giongrandi denuncia il fatto che oggi tutti i condannati che beneficiano delle misure alternative, e sono una larga parte, non vengono adeguatamente seguiti e controllati per mancanza di fondi e di personale destinati ad organismi come il UEPE (Ufficio per l’esecuzione penale esterna), ragion per cui si determina una sorta di amnistia strisciante.
In Norvegia proprio Christie ha dato avvio ad esperienze di confronto, in un contesto protetto e in presenza di ‘facilitatori’, tra l’autore del crimine e la sua vittima. Sono incontri finalizzati ad aiutare il colpevole e la vittima a capire le ragioni dell’atto commesso.
Ma questa mediazione tra autore del reato e vittima è sperimentabile per tutti i reati? Lo ha chiesto, durante il dibattito, Emma Seminara, giudice di sorveglianza dell’Istituto Penale Minorile, con particolare riferimento ai reati di associazione mafiosa, che rivelano -anche nei minori- un codice di ‘valori’ malavitosi già strutturati. Chirstie ha ammesso che ci sono dei limiti, ad esempio in un caso grave come quello di Utoya, i parenti delle vittime non accetterebbero certo di dialogare con Breivik, autore della strage.
Tanto più complessa è la situazione là dove è radicata la criminalità organizzata, ha sottolineato il procuratore Salvi. E’ possibile mettere a confronto l’autore del furto di una bicicletta con con chi questo furto ha subito, ma è impensabile mettere la vittima di estorsione di fronte al mafioso estortore, perchè la presenza di quest’ultimo si configurerebbe come una minaccia.
E’ giusto che siano i valori ad ispirare le scelte di politica criminale, ribadisce il procuratore, ma non è facile in una società non omogenea come la nostra, in cui i valori sono spesso diversi e in conflitto tra loro.
L’incontro è stato reso possibile dalla mediazione linguistica del ricercatore Maurizio Giambalvo, socio fondatore dell’associazione Next, autore della prefazione alla edizione italiana del volume di Christie
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