Risale a poco tempo fa la notizia del
I CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) furono istituiti nel 1998 dalla c.d. legge “Turco-Napolitano” con la denominazione di CPT , Centri di permanenza Temporanea ed Assistenza.
Sono strutture di detenzione amministrativa per coloro che hanno commesso un illecito amministrativo, vale a dire sono privi di regolare permesso di soggiorno e destinatari di un provvedimento di espulsione che non sia immediatamente eseguibile.
Tali centri vengono spesso confusi con i CARA (Centri di Accoglienza per i Richiedenti Asilo, istituiti dal D.Lgs 25/2008) che sono, invece, strutture nelle quali viene accolto lo straniero richiedente asilo nei casi previsti dall’art. 20: 1. quando è necessario verificare o determinare la nazionalità o l’identità della persona; 2. quando il richiedente ha presentato la domanda dopo essere stato fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo di frontiera o subito dopo; 3. quando il richiedente ha presentato la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare.
Ultimamente, in più di un’occasione, è iniziata una riflessione a partire dai numerosi dubbi che i CIE suscitano, a livello economico, legislativo e sociale.
Da una relazione del 2010 della Corte dei Conti sono emersi i costi esorbitanti per la collettività, dal momento che le spese per la gestione dei centri superano di oltre sette volte quello di appropriate politiche d’inclusione: 14 mila euro all’annuo pro capite per il mantenimento dei CIE (per un totale di 1800 posti disponibili) a fronte dei 2000 euro annui pro capite destinati alle politiche di integrazione rivolte a 100 mila immigrati.
Oltre ai costi di gestione dei CIE vanno considerati anche i costi di costruzione o ristrutturazione dei centri e i costi dei rimpatri: per ogni cittadino, lo Stato paga 5 biglietti aerei, di cui uno per la persona immigrata illegalmente più due (andata e ritorno) per gli agenti delle forze dell’ordine che la accompagnano.
Da un punto di vista legislativo, bisogna considerare che solo la metà di coloro che finiscono nei CIE viene effettivamente rimpatriata, un dato che dimostra quanto sia inefficace prolungare il trattenimento nei centri a 18 mesi.
In un recente incontro tenutosi a Bologna si è discusso di come possano essere affrontati i problemi di identificazione ricorrendo a soluzioni alternative alla detenzione.
Si è riconosciuta la necessità di un definitivo superamento della Bossi Fini (L.189/2002), che viene considerata responsabile di gran parte della produzione di clandestinità amministrativa nel nostro paese.
Quanto alle proposte, sono stati individuati alcuni percorsi orientati alla diminuzione della clandestinità, attraverso
Un altro aspetto critico da tenere in considerazione riguarda le condizioni in cui vivono le persone trattenute all’interno dei CIE che sono simili a quelle delle carceri sebbene tali persone vengano definite -in maniera eufemistica- “ospiti”.
In un’inchiesta del Corriere, Viaggio dentro i CIE tra pestaggi, psicofarmaci e strani suicidi viene citato -tra l’atro- l’ultimo rapporto della Commissione diritti umani del Senato, che ha evidenziato come le condizioni di vita nei CIE siano peggiori di quelli delle carceri e che, sebbene si tratti di una detenzione amministrativa, queste strutture siano più blindate di un carcere di massima sicurezza.
Il testo del rapporto può essere letto in versione integrale, insieme a quello di altri ‘rapporti di rappresentanze istituzionali, nazionali e internazionali’, in una apposita sezione del sito LasciateCIEntrare.
Sarebbe auspicabile che una questione così complessa venisse gestita attraverso un modello
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