Non è la registrazione di una conversazione tra leghisti, ma lo stralcio di un articolo pubblicato sul quotidiano torinese “Gazzetta del popolo” nel marzo 1861. Un altro stralcio, una lettera, stavolta, inviata dal marchese di Villamarina a Cavour l’anno precedente, descrive i meridionali pronti ad accaparrarsi incarichi politici e impieghi amministrativi del nascente Regno d’Italia. Una lungimiranza ammirevole: deve essere stato ben difficile rubare il lavoro alla gente del nord prima che esistessero impieghi statali e stato stesso.
Sintesi banale di una realtà complessa, il pregiudizio nei confronti dei meridionali ha radici antiche almeno quanto il processo di unificazione nazionale, se non più vecchie ancora. Il recente libro “La palla al piede. Storia del pregiudizio antimeridionale” dello storico Antonino De Francesco, edito da Feltrinelli, ripercorre la questione del pregiudizio nei confronti dei meridionali con l’intento dichiarato di restituirvi profondità storica.
De Francesco, basandosi su fonti destinate a un largo pubblico: giornali, letteratura, testi teatrali e melodrammi, ma anche il cinema, ricostruisce i cambiamenti della visione del Sud dalla fine Settecento agli anni Novanta del Novecento, e li lega a doppio filo con le vicende della storia politica del nostro paese. L’avanzare del pregiudizio nel discorso pubblico, infatti, non ha linearità ma segue gomito a gomito la storia politica del nostro paese.
Leggendo il saggio, lungo e complesso ma accuratamente documentato e scorrevole anche per chi non possieda tutti gli strumenti dello storico, apprendiamo dei modi sempre diversi in cui è stato fatto uso di quei topos che conosciamo bene sulla bassa italia -quelli del meridionale prigro, profittatore, ignorante, selvaggio e improduttivo e quelli di una società arcaica e in qualche modo ferino pura, ma al contempo corrotta nelle fondamenta, mafiosa e camorrista nella sua classe dirigente, clientelare e retriva- per i più svariati scopi: assegnare al Mezzogiorno la responsabilità di un’unità nazionale ritenuta insoddisfacente, giustificare un presunto mancato sviluppo dell’Italia verso la modernità di altre nazioni europee, e, solleticando un certo paternalismo, richiedere fondi, assistenza e aiuto per le regioni del meridione.
Mentre ufficialmente le recriminazioni antimeridionali sono state sempre ritenute incompatibili con il quadro di riferimento nazionale, in quanto elemento di disgregazione e negazione dello stato unitario stesso, e sotto il fascismo addirittura censurate, ufficiosamente hanno avuto gran gioco nell’orientare le scelte politiche. Lo stereotipo legittima sia la presa in carico di una società non in grado di governarsi da sé, sia la pretesa di liberarsi di un mondo reputato improduttivo e parassitario.
Lungo e fuori luogo sarebbe ripercorrere tutte le tappe dell’uso politico dei giudizi sul sud e sui suoi abitanti. Per questo rimandiamo al libro. Ci accontenteremo di sottolineare come il libro di De Francesco mostri, utilizzando l’esempio della Sicilia durante la spedizione dei Mille, che la radice del pregiudizio non è, o per lo meno non è soltanto, di tipo antropologico: secondo una pubblicistica diffusa a partire dal Settecento i meridionali discenderebbero dai greci, toscani e umbri dagli etruschi, e tutti gli altri italiani dai celti, sardi esclusi, misteriosi anche nel pregiudizio: dunque le differenze tra gli italiani sarebbero anzitutto etniche.
Mentre l’Italia peninsulare è vista, a partire dalla rivoluzione giacobina del 1799 e dalle atrocità dei sanfedisti, come una polveriera reazionaria, la Sicilia con l’entusiastico sostegno dato a Garibaldi si guadagnò nomea di un patriottismo che mise a tacere i pregiudizi, e che tenne distinto il caso della
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