Sul palcoscenico, al centro di una scena scarna, erano solo in cinque, quattro musicisti e lui, Moni Ovadia. Tanto bastava a prenderci per mano per condurci nel mondo della cultura Yiddish. Le note della musica della tradizione klezmer e una sottile ironia per parlare della tragedia, dei vizi e delle virtù di un popolo.
Cabaret yiddish ha aperto la XXXVIII stagione dell’Associazione Musicale Etnea. Uno spettacolo musicale (e non solo) che si avvale del suono di quattro strumenti, violino (Maurizio Dehò), clarinetto (Paolo Rocca), fisarmonica (Albert Florian Mihai), contrabbasso (Luca Garlaschelli) e della voce di Moni Ovadia.
È proprio Ovadia ad usare il termine “viaggio” per definire questo incontro con un mondo che non esiste più, ma che ha lasciato moltissimi segni nella cultura europea del Novecento, come testimonia l’opera di F. Kafka.
Un “viaggio” che rimanda alla dimensione dell’esilio, in cui è nata la cultura yiddish, un coacervo di lingue e suoni di origine tedesca, ebraica, polacca, russa, romena che faceva da collante tra le diverse comunità provenienti dal centro e dall’ est dell’Europa; una cultura, quindi, legata all’esperienza dolorosa della diaspora.
L’esilio è dunque il filo conduttore dello spettacolo che mette in scena, con un continuo passaggio di registri e di toni, momenti legati alla preghiera, alle cerimonie religiose, alle occasioni di festa. Moni Ovadia snocciola con ritmo brioso una storiella dietro l’altra, cui fanno da contrappunto le note dei quattro bravissimi musicisti.
Ed è un alternarsi di dolente malinconia e di sottile umorismo che coinvolge lo spettatore emozionandolo e impedendogli di distrarsi per circa due ore di spettacolo ininterrotto. Ovadia, con divertita e divertente ironia racconta i temi caratteristici della cultura giudaica, come il rapporto con il denaro e gli affari; tratteggia con ilarità figure dominanti della famiglia, come quella della “mamma”che armata di un amore sconfinato per i figli diviene anche l’infaticabile organizzatrice della loro vita.
Moni Ovadia ha saputo essere, come sempre, un irresistibile affabulatore, offrendoci una rappresentazione che è una perfetta mistura di musica e narrazione, cui non mancano accenni alla danza che ne vivacizzano il dispiegarsi serrato e ritmato.
La musica ha alternato momenti di commozione a gioiosa esplosione di vitalità, catturando il nostro animo con il suo linguaggio universale.
La scelta dell’Associazione Musicale Etnea di inaugurare la stagione 2012/2013 con Cabaret Yiddish, appare in linea con il significativo titolo della rassegna “Riflessioni”. Senza tema di forzature, il nostro pensiero non può non andare alle tante realtà di chi oggi è senza patria e vive con struggente sofferenza la condizione di estraneità in cui conduce la propria esistenza.
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le critiche o meglio i commenti esaltanti non mi piacciono. Specie quelli riferiti a spettacoli privi del requisito della novità. Moni Ovadia è da circa venti anni che porta in giro uno spettacolino che può esaltare solo chi si affaccia alla nuova generazione di spettatori. Gli anziani e i vecchi possono solo applaudire e congratularsi con Ovadia per la longevità. Nulla di più. O meglio c’è un di più: ascoltandolo per la terza volta ribadire e ripetere ossessivamente le critiche al fascismo ed al nazismo non comprendiamo perchè debba tacere sullo scempio del socialcomunismo dell’est. Il nostro Ovadia dice di esser nato in Bulgaria. Non riesco a capire come non abbia ancora il coraggio di criticare quel sistema ideologico – economico ignobile che ha distrutto la vita di tanti popoli. Forse più del fascismo. Ancora di quel sistema ideologico ( socialcomunista ) anche in Italia ne portiamo i segni attraverso le idee e le persone ( difficili da rottamare )tuttavia, nonostante le evidenti sconfitte accumulate, ancora mostra di non aver tirato le cuoia completamente. Ancora vuole resistere e quel ch’è grave trova adepti tra le persone che di quel sistema dovrebbero dire peste e corna. E invece tacciono . Come Moni Ovadia.
Lina Arena: “Non riesco a capire come non abbia ancora il coraggio di criticare quel sistema ideologico – economico ignobile che ha distrutto la vita di tanti popoli. ”
Ce l’ha, infatti.
Ha dedicato all’argomento uno spettacolo, “La bella utopia” e un libro, “Lavoratori di tutto il mondo ridete”. Forse, se anziché riguardare tre volte lo stesso spettacolo lei avesse dato un’occhiata anche agli altri, invece di limitarsi ad ammirare la longevità (ma per carità di patria taceremo la longevita di altri musicisti italiani che portano in giro messaggi ben più profondi e sfaccettati).
“Io, ancorché ‘comunista’, se considero la mia storia personale dal punto di vista retrospettivo, a differenza di tanti anticomunisti odierni da salotto televisivo, sarei stato inesorabilmente una vittima dello stalinismo”, dice senza mezzi termini in “Lavoratori di tutto il mondo ridete”. E, qualche pagina dopo:
“Sono nato in Bulgaria, uno Stato che un paio d’anni dopo la mia nascita doveva diventare un Paese comunista, o per essere più precisi un Paese con un sistema di “socialismo reale”. Mi sono chiesto spesso come sarebbe stata la mia vita se i miei genitori, entrambi nati in quel Paese, invece di scegliere l’Italia come meta di destinazione, come consentiva la cittadinanza italiana di mio padre, avessero deciso di rimanere in Bulgaria. La domanda è puramente astratta, con i se e con i ma non si racconta la Storia, neppure la piccola storia dei singoli individui. Tuttavia, almeno nel mio caso, ha un certo qual significato.
In Italia, sin da adolescente ho aderito alle idee del socialismo prima e del comunismo subito dopo. Nel nostro Paese all’epoca ciò significava essere decisamente all’opposizione, con tutto ciò che una simile scelta comportava. In Unione Sovietica gli intellettuali e gli artisti ebrei, anche quelli del teatro yiddish sovietico come il leggendario attore Solomon Michajlovic Michoels, avevano aderito al Partito bolscevico, ma quando Stalin rivolse le sue cure di batjuska (“caro e dolce padre”) in direzione degli ebrei scatenando una vera e propria campagna antisemita travestita da offensiva contro il cosmopolitismo, tutti i grandi dell’intellighenzia ebraica bolscevica furono fucilati in un tragico giorno, il 12 agosto del 1952. Se considero la modesta storia del mio rapporto con la cultura yiddish, sono legittimato a ritenere che, se avessi svolto la mia opera in quel luogo e in quel tempo, sarei stato contato tra i fucilati. E se non lì alla Lubjanka, come Babel’ e centinaia di migliaia di altri comunisti che avevano commesso il crimine di prendere il comunismo sul serio. In Bulgaria, mio Paese natale, come in Russia quelle idee erano teoricamente al governo… Teoricamente. Io dunque mi sarei iscritto giovanissimo al Partito comunista bulgaro, appena avessi avuto l’età della ragione? Può darsi, ma per come mi conosco non ci sarei rimasto a lungo. La retorica ideologica, l’ottusa arroganza del potere, il conformismo dei regimi, l’ingiustizia camuffata da ragion di Stato o di partito mi sono insopportabili per carattere e per vocazione. Sarei stato con ogni probabilità un oppositore. Che tipo di oppositore? Un oppositore passivo che attende il crollo prossimo futuro di quel sedicente socialismo, perché si manifesti l’avvento del Paradiso capitalista sul modello statunitense? Non credo. Trovo profondamente disonesto combattere le ingiustizie con altre ingiustizie.”
A proposito, ma perché nel suo intervento trovo scritto che Ovadia “dice” di esser nato in Bulgaria? Non è vero? Sa qualcosa che io non so?
Quanto al suo “forse più del fascismo”, lasciamo correre, per carità. Le rispondo ancora con Moni Ovadia:
“Il revisionismo anticomunista, molto in voga soprattutto nel nostro Paese, è una delle pratiche di pensiero più squallide che circolino nella nostra poco edificante epoca. Questo demi-penser prende a calci un cadavere putrefatto con rabbioso accanimento perché l’obiettivo dei suoi calci non è il sistema del socialismo reale oramai decomposto. Quel sistema appartiene alla Storia e, con l’eccezione di pochi nostalgici dalla memoria sclerotizzata, nessuno si sognerebbe di farlo rivivere, men che meno coloro che militano nei partiti i quali spavaldamente inalberano nel nome la dicitura “comunista”. Il vero obiettivo degli anticomunisti necrofili è un altro, ovvero il corpo vivo e pulsante delle conquiste sociali ed etico-politiche ottenute anche e soprattutto grazie alle lotte e ai sacrifici dei comunisti: sono i diritti del lavoro, i diritti delle minoranze, l’emancipazione degli umili e degli oppressi, la difesa degli sfruttati, la solidarietà ai popoli schiacciati da ogni forma di colonialismo e imperialismo. Gli anticomunisti dell’ultima ora vogliono riportare indietro le lancette dell’orologio della storia sociale, vogliono di nuovo fare tabula rasa per sgombrare il campo al capitalismo da rapina, all’iperliberismo più selvaggio. Per conseguire il loro lugubre scopo, gli ideologi dell’anticomunismo postumo hanno la necessità vitale di affermare una visione manichea e metastorica del mondo, il cui schema è immobile e definitivo: il comunismo è il regno del male assoluto in ogni sua forma ed espressione, e quel male è il male in sé per definizione. Esso è nato nel male, per fare il male e solo per questo unico fine.”
Pensatore forse un po’ più complesso di quanto la nostra tradizione di comici ci abbia abituato. Forse anche un po’ piuù scomodo.
Saluti.
Andr.
Forse, se anziché riguardare tre volte lo stesso spettacolo lei avesse dato un’occhiata anche agli altri, invece di limitarsi ad ammirare la longevità…
scusate, è saltato un pezzo di frase. Quel che volevo dire era:
Forse, se anziché riguardare tre volte lo stesso spettacolo lei avesse dato un’occhiata anche agli altri, potrebbe avere un’idea più sfaccettata anche dei contenuti del lavoro di Ovadia, invece di limitarsi ad ammirarne la longevità.
Andrea