Karibuni Kenya! Benvenuti in Kenia. Con
Seminari, laboratori ma anche incontri con le comunità locali, in particolare quelle coinvolte nei progetti sostenuti da Mani Tese insieme a Necofa, una ONG africana che promuove l’ accesso alle informazioni da parte di agricoltori e piccoli commercianti, per metterli in grado di decidere consapevolmente cosa e come coltivare.
Molti produttori locali, infatti, si sono fatti abbagliare dalle false promesse di lauti guadagni e hanno abbandonato le colture destinate alla alimentazione locale per impiantarne altre, ad esempio il mais da trasformare in biocarburante.
Questi agricoltori sono divenuti schiavi dei grossisti e dei mercati internazionali e sono rimasti senza i prodotti base per la loro sussistenza. Ecco perchè in un paese in sviluppo come il Kenya può accadere che più di metà della popolazione sia sotto le soglie della povertà.
I progetti di Mani Tese sono finalizzati alla riappropriazione dell’autonomia economica da parte degli agricoltori locali. Tornando alla coltivazione di prodotti tradizionali, come sorgo, manioca e miglio, soprattutto se integrati con altre attività produttive come la pastorizia e l’apicultura, gli agricoltori possono riprendere il controllo della loro realtà economica, riuscendo a sfamarsi e a portare parte del prodotto nei mercati locali. Il ritorno alla tradizione può riguardare anche attività artigianali tradizionali, come l’utilizzo dell’agave per la costruzione di corde.
Questo non significa escludere l’introduzione di tecniche innovative, purchè si rimanga liberi da condizionamenti esterni, come quelli delle multinazionali, che tendono ad imporre propri prodotti e soprattutto propri semi.
Il monopolio sui semi crea una dipendenza totale dalle aziende che li forniscono e rappresenta un pericolo anche per l’ambiente perchè contribuisce all’estinzione di molte varietà di piante, proprio quando in Kenya, ricchissimo di biodiversià, vengono individuate specie non conosciute.
Le coltivazioni per l’esportazione e la vendita di legname hanno portato anche alla deforestazione e alla conseguente erosione del territorio. L’acqua, non trattenuta, precipita inoltre a valle creando allagamenti, come Antonio e Luciana hanno mostrato in alcune diapositive. Viene alterato tutto il regime delle acque con conseguenze gravi non solo a livello locale, perchè i fiumi kenyoti alimentano il lago Victoria e influiscono sulla portata del Nilo.
Chi disbosca lo fa in genere per introdurre piante non indigene come il grano, la canna da zucchero, la soia, la palma da cocco e il tè, coltivato in grandi latifondi chiamati ossimoricamente “deserto verde”, perchè le loro verdi piantine hanno comunque sostituito la rigogliosa foresta.
Progetti di riforestazione sono già in corso e insieme ad essi anche esperienze di “orti scolastici”, promossi insieme a Slow Food, orientati alla coltivazione di piante indigene e al recupero di ‘saperi e sapori’ tradizionali, erosi prima dalla schiavitù, poi dalla colonizzazione e adesso dalla dipendenza dal mercato globale.
Un esempio è rappresentato dal progetto di sostegno alla comunità di Mariashoni nella divisione amministrativa di Elbagon, sull’altipiano. I destinatari sono i superstiti (poche migliaia di persone) della popolazione autoctona degli Ogiek, praticamente espulsi dal loro territorio ed esposti ad ingerenze esterne che hanno generato perdita di identità, anche linguistica, e fenomeni di alcolismo, disoccupazione giovanile, disparità di genere, con conseguente indebolimento della capacità di organizzarsi in senso comunitario.
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