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Parole, bene comune

Quando diciamo bene pubblico pensiamo subito all’acqua, alle scuole, ai monumenti. Invece bene pubblico sono anche le parole, perché sulle parole e sul loro retto uso si fonda la nostra forma di convivenza sociale, la democrazia. Per questa ragione, e non solo, è necessario che i cittadini sorveglino il linguaggio pubblico, quello della politica e della comunicazione e il linguaggio quotidiano, potente veicolo di idee.
In quest’ultimo ventennio il lessico della politica ha subito una deriva preoccupante e pericolosa. “Riprendiamoci le parole”, saggio di Graziella Priulla, docente di Sociologia dei processi culturali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’università di Catania, appena edito per Di Girolamo, fa il punto della situazione avanzando la proposta di una moratoria: smettere di usare per tutto il 2012 le parole più abusate, più snaturate in questi anni di comunicazione appiattita, banalizzata, involgarita. Ne fa un elenco, indicando l’uso distorto di ciascuna parola con esempi dell’attualità e del passato recente. Così, ripassiamo il significato delle parole “popolo”, “libertà”, “crescita”, “liberali” (e “riformisti”), “moralismo”, “garantismo” (e “giustizialismo”) e di tante loro compagne di sventura.

Il bersaglio del libro è il potente, qualsiasi casacca indossi, che usa le parole in maniera banale, come se parlando in maniera ricca e argomentata, al cervello e non alla pancia, si commetta un peccato originale: quello di essere un intelletuale, e dunque per definizione lontano dalla “gente”.

Il politico  ha necessità di essere uguale al popolo, essere uno del popolo in una sventurata (e immaginaria) solidarietà antropologica, per perseguire il fine profondo di continuare a essere eletto. Ma i cittadini sono davvero quelli che i politici di destra e di sinistra si figurano?

Si tratta di un agire criminale perché depauperando le parole il pensiero perde la capacità di concentrarsi sui concetti che una volta esse veicolavano e ora non veicolano più; ad accorgersi dello slittamento dei significati sono soltanto coloro che sono stati addestrati al ragionamento critico. Che sia anche per questa ragione che la scuola pubblica è sempre più negletta e sempre più colpita con tagli ai finanziamenti e riduzione del personale?

Il tema del mutamento coatto  del significato delle parole in questi ultimi anni ha spesso incontrato l’interesse di saggisti e lettori: per  citare due esempi, entrambi opera di giuristi, il conosciutissimo e molto letto “La manomissione delle parole”, di Gianrico Carofiglio, edito da Rizzoli, e “Sulla lingua del tempo presente” del giudice costituzionale Gustavo Zagrebelsky, Einaudi.

“Riprendiamoci le parole” è chiaramente anche se non direttamente indirizzato a chi già è preoccupato per lo stato attuale del linguaggio sociale italiano, ed è forse questo il difetto di un libro intelligente e ironico, divertente, a tratti balsamico: restituisce le parole a chi già le possiede, fa da ripasso e da sfogatoio. Ma anche di questo, a nostro parere, abbiamo bisogno.

Argo

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