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Tempi duri per Shakespeare

Brutto periodo questo per Shakespeare! Il film “Anonymous” lo vede come prestanome del conte di Oxford Edward de Vere, che sarebbe il vero autore delle opere attribuite al drammaturgo inglese, che viene relegato al ruolo di volgare capocomico. Adesso  Franco Ricordi, attore e regista teatrale, lo colloca tra i più grandi nichilisti della storia letteraria d’Occidente, nel suo recente e voluminoso (500 pagine) “Shakespeare, filosofo dell’essere”, pubblicato da Mimesis e presentato giovedì scorso alla Feltrinelli.
Nella prefazione, il filosofo Emanuele Severino sostiene che “la filosofia pensa, sin dal suo inizio, il rapporto con la poesia, soprattutto con la poesia drammatica”. Eschilo non è solo il primo dei grandi drammaturghi e poeti tragici, ma è anche una delle “più grandi luci del pensiero filosofico della storia dell’Occidente.”
Per Sergio Sciacca il cardine filosofico del pensiero di Shakespeare è “lo scorrere del tempo”, con la morte che incalza. Parte della filosofia shakesperiana è, a suo parere anche il linguaggio, spesso scurrile, dei doppi sensi , “linguaggio tragico con sottofondo comico: filosofia che va incontro all’uomo e vive nel concreto”.
Addentrandosi nella psicologia dei personaggi, il critico e drammaturgo Enrico Groppali ha evidenziato la differenza/somiglianza tra “ingannanti” e “ingannati”. Nel “Mercante di Venezia,” per esempio, apparentemente l’ingannante è l’ebreo Shylock (che ricatta Antonio, indebitato con lui, dicendogli che taglierà pezzi della sua carne), ma poi Porzia (principale personaggio femminile), travestita da giurista, trova un cavillo (“staccherai la sua carne, senza versare una goccia di sangue”) e, a quel punto l’ingannato diventa Shylock. A turno, passano da “ingannanti” a “ingannati”:  Jago, Desdemona, Otello, che – inoltre-  pur avendo portato ricchezze alla città di Venezia, resta sempre un “negro”, uno straniero, un emarginato. Ci sono poi Macbeth e sua moglie, che da “ingannanti” divengono “ingannati” dalla loro stessa sete di potere, tanto che Lady Macbeth si consumerà da sola, in preda a delirio e pazzia.
Il libro di Ricordi, anche se è un saggio, va letto come un viaggio da percorrere, i cui sei capitoli sono: la Grecia (“Commedia degli errori”, “Sogno di una notte di mezza estate”…), Roma ( “Tito Andronico”, GiulioCesare”…), l’Italia ( “Due gentiluomini di Verona”, “La bisbetica domata”, “Giulietta e Romeo”…), la Gran Bretagna (“Riccardo III”, “Enrico IV” “Enrico V”…), la Mitteleuropa (“Dodicesima notte”, “Amleto”…). Questo pensiero geografico -corredato da cartine dei vari luoghi- è un anticipo di globalizzazione letteraria, come ricorda l’autore
Il principio (filosofico?) del drammaturgo inglese –secondo Ricordi- è quell’ “essere/non essere”, che non viene espresso solo in “Amleto” ma, con diverse sfumature, anche in altre opere, come Otello e Racconto d’inverno o nel “I am not what I am” (“Non sono ciò che sono”) della “Dodicesima notte”. Questo pensiero del “niente”, questo nichilismo non sono altro che una filosofia che viene fuori da “carne ed ossa” dei personaggi, non da concetti.
Le interessanti sollecitazioni proposte dai relatori lasciano tuttavia aperti diversi interrogativi. Ne esplicitiamo due, quelli di ordine più generale. E’ corretto fare coincidere il nichilismo con il senso della precarietà e la percezione dell’incalzare della morte? Risolvere la filosofia di Shakespeare nel nichilismo non rischia di mettere in ombra altri aspetti del pensiero del grande drammaturgo?

Argo

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