Il documentario è stato presentato anche a Catania, lo scorso 21 gennaio, nella sede del circolo Città futura di Rifondazione comunista.
Dietro il fax che annuncia i licenziamenti all’Omsa non c’è la crisi ma solo la voglia di accrescere il profitto. Si scrive delocalizzazione, si legge licenziamenti. Il gruppo Golden Lady va bene e lo ammette persino nel suo sito. Ha solo deciso di chiudere lo stabilimento Omsa di Faenza per aprire una fabbrica in Serbia, dove la forza lavoro costa meno. Altro che “Omsa che gambe”. Utilizzando un eufemismo si potrebbe dire “Omsa che gaffe“.
Nel filmato le operaie Omsa, vestite di rosso, marciano, parlano, comunicano con il corpo, abbracciano i passanti, piangono insieme a loro. Accanto alle operaie si è schierato il mondo della cultura, dalla compositrice Giovanna Marini ai francesi del Theatre de l’Unité, alla banda musicale del Testaccio.
“Licenziata!” guida per mano lo spettatore all’interno del laboratorio teatrale che ha permesso alle operaie della fabbrica di farsi conoscere in tutte le città d’Italia con un evento ben più efficace di un’azione sindacale canonica. “Col documentario e col teatro abbiamo fatto molto di più che con un’occupazione della fabbrica“, dicono le donne.
Alla performance si sono affiancati gli appelli nel Web a boicottare l’azienda. L’invito, “Mai più Omsa“, a non comperare calze e prodotti del noto marchio italiano, che fa parte del gruppo Golden Lady Company con sede a Castiglione delle Stiviere, Mantova, e proprietario non solo del marchio Omsa, ma anche di altri nomi famosi come Sisi e Golden Lady.
Il caso delle lavoratrici OMSA non è certo l’unico e nemmeno il più grave. Molti operai di altre aziende hanno perso il lavoro da un giorno all’altro, senza poter usufruire della cassa integrazione o di altri ammortizzatori sociali.
Prima ancora della crisi, infatti, la globalizzazione dei mercati ha messo in discussione i posti di lavoro e i diritti dei nostri operai.
Nessuno di loro, con il suo diritto alla malattia e alle ferie, con un numero di ore di lavoro stabilito per contratto, può competere con i lavoratori del Sud del mondo o dei paesi che offrono comunque minori garanzie. Le industrie che delocalizzano sanno di avere a disposizione lavoratori più a buon mercato e più docili, abituati ad essere sfruttati.
Non possiamo per questo essere disponibili a perdere i diritti conquistati in un secolo di lotte, ma non possiamo neanche trincerarsci dietro parole d’ordine del tipo “non mollare”. La via d’uscita può essere quella di impegnarci nella difesa e nella diffusione dei diritti a livello globale.
Quando un operaio serbo, cinese o coreano avrà un salario adeguato, assistenza sanitaria, pensione, e potrà scioperare, non sarà più così conveniente spostare le nostre fabbriche in questi paesi e i nostri lavoratori saranno più tutelati.
Ecco un estratto del film “Licenziata!”.
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