Di Vincenzo Consolo, lo scrittore siciliano che ieri l’altro si è spento a Milano dopo una lunga malattia, vogliamo ricordare il controverso rapporto con la sua terra che ha sempre avuto il bisogno di visitare e scrutare ansiosamente, sentendosene ogni volta offeso e respinto. Di grandi siciliani come Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo è stato amico e ha condiviso in modo personalissimo l’impegno civile, innervato sull’ esempio inimitabile di Pasolini.
Dopo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976) la sua partecipazione alle sorti del suo Paese è stata costante e appassionata, ma al contempo riservata e pudica, quanto più acuta si faceva la pena nell’osservare gli effetti della mutazione antropologica verificatasi nel passaggio dall’Italia contadina all’Italia industriale, aggravata in modo inarrestabile dal berlusconismo.
Quando accettava di conversare con gli studenti delle scuole, se gli veniva richiesto –e gli veniva puntualmente richiesto- di stabilire un confronto tra il suo stile e quello più popolare e più noto di Camilleri, si sentiva insolentito e pazientemente spiegava che la sua lingua si nutriva alle fonti della tradizione letteraria italiana: anche nell’uso dei suoi arcaismi egli non ammiccava alla prosa d’arte, ma selezionava con vigile cura, prima che sparissero del tutto le parole, i miti, i periodi ritmici del fraseggio dei suoi conterranei che la sua memoria aveva gelosamente conservato.
Soltanto alcune splendide trasposizioni teatrali ci hanno rivelato in pieno la musicalità del suo stile lirico inconfondibile.
Oggi che apprendiamo della sua sepoltura in Sicilia, ci sentiamo orgogliosi della chiusa fierezza di questo scrittore che nell’”Olivo e l’olivastro” si descrive come novello Ulisse che approda alla sua terra dopo venti anni, immerso nel sonno.
Anche lui non credeva ai suoi occhi nel vedere le reliquie del tempio di Segesta violate, lambite dalle fiamme degli incendi dolosi che in una torrida estate isolana avevano bruciato “ogni macchia di ginestra, ogni ginepro, ogni pioppo tremulo sulle pareti del vallone fondo del torrente su cui s’affaccia il grandioso tempio”.
Lo stretto di Messina gli appare come un confine tra la vita e la morte, la natura e la cultura. “quel canale ribollente…quell’utero tremendo di nascita o di annientamento”. E veramente nelle sue pagine diventa metafora dell’esistenza quel braccio di mare, che gli aveva prefigurato una biforcazione di sentiero o di destino, segnalando a lui, come a tanti siciliani, la perdita di sé e l’annientamento dentro la natura o la salvezza in seno a un consorzio civile e a una cultura.
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chi scrive questo “coccodrillo” non si smentisce mai :ottimo