Da pochi giorni è stata inaugurata, alla presenza del neoministro degli Interni Anna Maria Cancellieri, la sede palermitana dell’ Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati .
Nel pomeriggio dello stesso giorno si è svolta in Prefettura la cerimonia di assegnazione alla Regione Siciliana del Fondo Verbumcaudo, un terreno di circa 150 ettari, da 24 anni confiscato al boss Michele Greco, ma rimasto imbrigliato in una complicata serie di passaggi burocratici, prima di arrivare all’attuale conclusione che ne vedrà l’assegnazione al Consorzio Sviluppo e Legalità.
Quasi contemporaneamente il Governo ha approvato tre regolamenti che conferiscono un assetto definitivo all’Agenzia, chiudendo in tal modo la fase transitoria e consentendo ad essa di coadiuvare a pieno regime l’Autorità’ giudiziaria dal momento del sequestro dei beni fino alla confisca definitiva.
Non si era ancora spenta l’eco di questi avvenimenti, particolarmente significativi nel quadro dell’impegno delle istituzioni nella lotta alla mafia, che è divampata una strana polemica a partire dalla tavola rotonda svoltasi a Palazzo dei Normanni nell’ambito del convegno sull’utilizzo dei beni confiscati alla mafia, promosso dal Consorzio Sviluppo e Legalità.
Nel corso del suo intervento il prefetto di Palermo Umberto Postiglione ha asserito che è ormai tempo di cominciare a pensare alla vendita dei beni sequestrati mettendoli all’asta, in quanto l’impossibilità di fare investimenti per il loro recupero a causa della crisi economica e della mancanza di fondi rischia di far restare inutilizzate molte di queste proprietà.
“Vendiamo all’asta le tante proprietà inutilizzate confiscate ai mafiosi – ha concluso il prefetto di Palermo – se poi se le ricomprano loro vuol dire che gliele confischeremo di nuovo.” Certo, da un alto funzionario dello Stato ci si potrebbero aspettare ragionamenti più lungimiranti e meno semplicistici.
Opinione analoga era stata precedentemente espressa dal prefetto Caruso, direttore dell’Agenzia, sia pure limitatamente al caso in cui gli enti territoriali non siano interessati. Parzialmente diverso è invece il caso della aziende confiscate perché, se restano non operative sul mercato troppo a lungo, il rischio del fallimento è più facile.
Secondo Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, occorrerebbe invece riassegnare il bene al territorio dove è stato confiscato per realizzare opere di pubblica utilità.
Da un punto di vista strettamente economico, la proposta di Postiglione ha una sua logica, quando si pensi che il valore totale dei beni confiscati in Italia è di 33 miliardi di euro, e di essi la Sicilia detiene il 45%. Se ne potrebbe ricavare una quantità di risorse non indifferente, da convogliare verso tante altre urgenze e necessità.
Ma la questione non è solo economica. Vendere questi beni solo per fare cassa significa soprattutto sminuire il valore morale, culturale e politico della stessa azione della confisca: pur nella trasparenza dei bandi e dei controlli, sancirebbe l’impotenza dello Stato a perseguire il fine prioritario previsto dalle leggi Rognoni-La Torre e 109/96.
Decisamente contrario alla proposta si è infatti dichiarato il Centro Pio La Torre che, a firma del sua presidente Vito Lo Monaco e parlando anche a nome di molte componenti sociali e istituzionali dell’antimafia, ha lanciato un appello al ministro della Giustizia, Paola Severino, e al prefetto Giuseppe Caruso.
In esso si sostiene appunto che in tal modo verrebbero vanificati soprattutto lo spirito e le priorità fissate dalla legge Rognoni-La Torre e della legge 109/1996 che sono orientate al “riuso per fini sociali dei beni confiscati onde dimostrare che l’Antimafia risarcisce la società danneggiata dall’esproprio mafioso”.
E’ appena intuitivo, si sostiene inoltre, che la vendita all’asta di questi beni sia “il modo più semplice per consentire ai boss di ritornare nel possesso di quanto loro tolto grazie a semplici prestanome”.
D’altra parte “l’Assessore regionale Gaetano Armao”, si legge ancora nella lettera, “ha dichiarato che la Regione Siciliana paga all’amministrazione giudiziaria sei milioni di euro per gli affitti dei beni confiscati in suo uso, di cui solo tre milioni per due assessorati a Palermo. Immaginiamo che questi milioni di euro vadano nella loro destinazione finale nelle casse del Tesoro per una parte, per un’altra in quelle del Fondo unico della Giustizia dal quale qualcosa sarà stornata alla Sicilia.”
Da tempo l’assessore all’Economia chiede che le Regioni siano sgravate di questi oneri per gli immobili confiscati e assegnati al demanio dello Stato: “è come se il territorio venisse penalizzato due volte: la prima volta quando il bene è stato acquistato con modalita’ illecite e la seconda con l’attribuzione del ricavato della vendita allo Stato.”
Una ipotesi concreta è venuta dal parlamentare regionale Salvino Caputo il quale, pur riconoscendo che questi beni rischiano di rimanere inutilizzati in quanto i comuni non hanno disponibilità economiche per ristrutturarli in funzione del riutilizzo, propone l’istituzione di un fondo di rotazione che metta a disposizione dei Comuni adeguate risorse finanziarie in modo da permettere loro di gestire ed utilizzare i beni confiscati.
Forse è questa la direzione verso cui bisogna muoversi: trovare soluzioni praticabili ed efficaci, anche mettendo a frutto gli appositi e consistenti fondi europei e statali che non sono ancora stati spesi, perchè il riappropriarsi con la confisca del maltolto si trasformi in servizi, scuole e nuove occasioni di lavoro.
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