Ha introdotto il dibattito Salvatore Distefano, presidente dell’Associazione, sottolineando l’originalità della riflessione proposta che mette al centro “la più inquietante delle questioni siciliane, quella del reiterato consenso di massa al fenomeno mafioso”. Un tema che, evidentemente, non può essere rimosso.
Distefano, in particolare, si è soffermato sulla riproposizione, da parte dell’autore, della categoria gramsciana dell’egemonia, il cui utilizzo è necessario se si vuole capire perché, nonostante i tanti e importanti movimenti popolari antimafiosi sviluppatisi nel corso del tempo, la ‘buona politica’ sia stata sempre sconfitta.
La Acagnino ha evidenziato l’importanza della memoria e della puntuale ricostruzione di ciò che è accaduto, perché, soprattutto oggi, si rischia di tornare indietro, come quando, a Catania, all’inaugurazione delle attività legali del clan Santapaola intervenivano anche i rappresentanti delle istituzioni.
Il magistrato ha, inoltre, invitato a leggere anche la seconda parte del libro che, in appendice, propone un’importante documentazione (Dichiarazione universale dei diritti umani, Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, Convenzione Onu sulla corruzione) e una testimonianza di Antonio Ingroia.
Scalia, dopo aver ricordato come per un lungo periodo la negazione della presenza della mafia nella Sicilia Orientale sia andata di pari passo con la ‘criminalizzazione’ di quanti, denunciandone la presenza, creavano problemi all’imprenditoria locale (i famosi cavalieri del lavoro), ha ragionato sul ‘sottotitolo del libro’: manifesto per un’internazionale antimafia, sottolineando il carattere ‘utopistico’ di una tale prospettiva ma, insieme, il realismo che la contraddistingue.Infatti, nel mondo globale in cui viviamo (ed essendo stata l’organizzazione mafiosa siciliana un preciso punto di riferimento per lo sviluppo delle altre mafie) affrontare una tale problematica in ambito esclusivamente regionale o nazionale, significherebbe, di fatto, rinunciare a modificare la realtà.
La Fidelbo ha, innanzitutto, messo in evidenza la necessità che le giovani generazioni siano in grado di orientarsi rispetto alla genesi e alla complessità del fenomeno. Ma ha ribadito, facendo esplicito riferimento alla ‘primavera araba’, quanto un corretto utilizzo dei nuovi, e diffusi, strumenti di informazione possa contribuire a rimettere in discussione l’egemonia mafiosa.
Si è, quindi, in presenza di un fenomeno di potere e di classe, che, oggi, chiama direttamente in causa la borghesia mafiosa, capace di sottomettere lo stato alle ‘ragioni private’.
Un fenomeno che, a livello mondiale, si è innanzitutto sviluppato nelle realtà caratterizzate da condizioni generali simili a quelle della Sicilia, ovvero dove era presente “l’esistenza di un potere oppressivo e autoreferenziale, in grado di avvalersi di una propria forza, che potrebbe essere persino quella dello Stato quando gli apparati statali risultino tolleranti o compiacenti”.
Si tratta di un contesto multinazionale nel quale “si è creato qualcosa di simile a un mercato delle mafie” all’interno del quale si evidenzia l’allarmante crescita dei capitali di una gigantesca economia sommersa, che –secondo i dati del FMI- supera il 25% del Pil globale.
In questo quadro, secondo Marino, solo la formazione di un fronte mondiale di forze progressiste e antimafiose, capace di individuare una
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