E’ stata la campagna referendaria per l’acqua pubblica a porre al centro dell’attenzione del grande pubblico la questione dei beni comuni, anche se il tema non è nuovissimo e già nel 2009 Elinor Ostrom ricevette il premio Nobel dell’economia per i suoi studi sui commons. Il coinvolgimento delle persone e il risultato del voto del referendum hanno dimostrato che si tratta di un tasto sensibile. Accanto a quella dell’acqua, è scattata la difesa della scuola e dell’università pubblica, quella del territorio che si intende proteggere dalla distruzione di grandi opere che vorrebbero violentarlo.
E’ la percezione dell’ingiustizia, delle disuguaglianze che mette in moto le idee e può far nascere un “diritto vivo”. Il bene comune va infatti ripensato anche dal punto di vista giuridico come un genere diverso e alternativo sia rispetto alla proprietà privata, sia rispetto a quella pubblica, intesa come patrimonio dello Stato.
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, la sanità o l’università, esso espropria la comunità “(ogni suo singolo membro pro quota)” dei suoi beni comuni e non c’è nessuna tutela giuridica che la protegga da questo intervento dello Stato. La proprietà privata gode invece di protezioni e garanzie, che costringono ad esempio lo Stato ad un risarcimento in caso di esproprio.
Ma perchè mai un governo in carica deve avere il diritto di vendere liberamente beni che sono di tutti per far fronte alle necessità contingenti della propria politica economica? Il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano e non il proprietario dei beni che amministra, soprattutto quando i beni alienati o distrutti sono difficilmente recuperabili. Eppure il diritto dello Stato a privatizzare non viene messo in discussione né vengono prospettate tutele e garanzie per ciò che è pubblico.
Lo Stato ha sostenuto, fin dall’età delle recinzioni, la proprietà privata che privava contadini e artigiani di quei beni comuni, come la legna e i frutti dei boschi, che erano essenziali per il loro sostentamento ed appartenevano alla comunità.
E se successivamente, soprattutto nel secolo scorso, ha avuto una grande funzione di regolamentazione del mercato, di creazione del welfare, di riconoscimento dei diritti sociali, oggi le cose -sostiene Mattei- stanno diversamente.
Lo Stato non persegue più il bene pubblico, perchè è fortemente condizionato dalle Corporation sovranazionali, che concentrano in sé immense quantità di potere economico “capace di trasformarsi in potere politico e produzione di diritto”. Quanto alle organizzazioni internazionali, come il FMI, la Banca mondiale, il WTO, sono diventati i veri “legislatori globali”.
La battaglia per la difesa dei beni comuni implica invece una visione “ecologica” e non economica della realtà. Riporta al centro il problema dell’accesso e dell’uguaglianza reale delle possibilità per tutti gli abitanti della terra. Presuppone un cambiamento di sensibilità e di mentalità.
Proprio per questo -ha detto Mattei- non è tanto importante stabilire quale sia la definizione più opportuna di bene comune, ma individuare cosa significhi in ogni situazione. In Val di Susa sarà il territorio, al teatro Valle di Roma, occupato, sarà la cultura, a Taranto il mare inquinato dallo scarico di diossina che ha distrutto la tradizionale coltivazione delle cozze, creando disoccupazione.
Chi difende i beni comuni viene scambiato in genere per uno statalista. Ma su questo Mattei è chiaro: bisogna “predisporre un’alternativa politica e
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Concordo in pieno. Ma tale cambiamento -ovviamente- non avverrà subito: la cultura si forma nel tempo e per cambiarla, cercando formarne una nuova, ci vorrà altro tempo soprattutto se tale cambiamento risulta NECESSARIO.
ma oggi abbiamo assoluta necessità di velocizzare questi cambiamenti e abbiamo la possibilità di farlo grazie alle nuove tecnologie, perchè non scrivere queste cose su facebook che è un bacino immenso di utenza?