Canale di Sicilia e Adriatico centro meridionale sono le zone italiane più minacciate dalle fameliche compagnie internazionali, intenzionate a trivellare il mare Mediterraneo. I permessi per estrarre petrolio aumentano in modo esponenziale, come denuncia il dossier “Un mare di trivelle” di Legambiente. E’ emersa di recente anche la notizia che ci siano forti interessi, nel settore dell’estrazione, da parte della famiglia Prestigiacomo, anche se la ministra dell’ambiente non è più titolare, a livello personale, di nessuna azienda.
Ma il problema va al di là dei giochi e degli interessi locali, perchè ha una dimensione mediterranea: la corsa alla vendita dei permessi ed alle attività di prospezione e trivellazione coinvolge tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, da Malta e Cipro all’Egitto, dalla Turchia e dal Libano fino a Tunisi.
Ecco perchè gli interventi normativi e di controllo per la sicurezza e la protezione dell’ambiente dovrebbero essere sovranazionali e coinvolgono quanto meno la Comunità Europea.
Non dimentichiamo che il Mediterraneo è di fatto un bacino chiuso, quasi un lago, e un incidente simile a quello verificatosi nel Golfo del Messico nel 2010 sarebbe fatale per tutta l’area, indipendentemente dalla zona costiera in cui dovesse verificarsi.
Ma la corsa alle trivellazioni non si ferma perchè gli interessi in gioco sono troppo forti e troppi i centri di potere interessati alla spartizione. Le grandi società petrolifere operano utilizzando piccole aziende per non rischiare la propria immagine e, soprattutto, gli indennizzi in caso di incidenti rilevanti, come nel caso della San Leon che opera al largo di Sciacca ed ha solo diecimila euro di capitale, meno di quanto basta ad impiantare una gelateria(* Lorenzo Tondo – Le strane società fantasma che “bucano” il mare di Sicilia In Repubblica/Venerdì, 27 agosto 2010).
Non meno interessate sono le leadership dei governi delle nazioni che si affacciano sul Mediterraneo. Ufficialmente hanno fame delle royalties, ma sono coinvolte in forti giri di tangenti e subiscono pressioni politiche da parte delle nazioni industrializzate assetate di risorse energetiche.
In caso di incidente, manca un piano di risposta all’emergenza, non solo italiano, ma anche europeo. E la stessa normativa comunitaria sulle installazioni off-shore è lacunosa. Si prospetta l’opportunità di creare una supervisione indipendente per controllare la sicurezza delle piattaforme, ma sulla normativa che dovrebbe stabilire la tipologia dei vincoli è in atto uno scontro (non dimentichiamo la normativa avrebbe ricadute non solo sul Mediterraneo, ma anche sul mare del Nord).
Eppure, anche per motivi statistici, con l’aumento del numero delle trivellazioni cresce la probabilità che si verifichi il guasto o l’errore umano. E parliamo di incidenti di grande portata, perchè i piccoli incidenti si verificano sempre, senza che se ne parli sui media. Lo stesso funzionamento delle piattaforme offshore presuppone delle perdite routinarie che determinano una lenta agonia della vita vegetale e animale del Mediterraneo.
Tanto più se le trivellazioni avvengono in zone riconosciute come aree protette, dagli stati o da organismi internazionali che tutelano la diversità biologica.
Un caso molto notevole e recente riguarda una vasta area ad Est del Mediterraneo, che si estende dal delta del Nilo all’isola di Cipro, lungo le coste di Israele, del Libano, della Siria, dove sono già in funzione diversi “campi di coltivazione” (Tamar, Leviathan e Dalit) ed è in corso la vendita, da parte dei vari stati, dei diritti di prospezione e trivellazione.
Anche questo ci riguarda da vicino, perchè, in caso di incidente, tutto il Mediterraneo morirebbe della stessa morte. La corsa all’accaparramento di queste risorse ha inoltre già creato tensioni tra i paesi dell’area, spesso già in cattivi rapporti tra loro (come insegna il caso di Cipro).
Abbiamo già scritto su Argo (Trivelle sui giardini di corallo) che una delle aree a rischio più pregiate dal punto di vista ambientale è proprio il Canale di Sicilia. Al rischio di distruzione ambientale si aggiunge, anche in questo caso, quello dei conflitti tra gli stati che insistono sull’area (Italia,Malta, Libia e Tunisia) tra cui esistono già dei contenziosi aperti. Malta ritiene, ad esempio, che siano stati dati dall’Italia permessi di esplorazione in acque territoriali che ritiene sue e di cui vorrebbe accaparrarsi i diritti. (link?)
Sulle trivellazioni in Sicilia gli ultimi a fare interrogazione alla ministra Prestigiacomo sono stati alcuni parlamentari, prima firmataria una senatrice torinese, Patrizia Bugnano. La ministra invece, pur essendo siciliana, non sembra intenzionata a difendere il patrimonio ambientale dell’isola. Anzi, con l’allontanarsi dei timori determinati dall’incidente della Deepwater nel Golfo del Messico, sta allentando le maglie del controllo.
Il suo ministero aveva fissato infatti , nel 2010 alcune regole, come il “divieto di attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi all’interno di aree marine protette e costiere nelle fasce di mare comprese entro le 12 miglia dal perimetro di tale aree e entro le 5 miglia, per gli idrocarburi liquidi, dalla linea di base lungo tutta la costa italiana” (Dlgs 128). Eppure lo scorso aprile lo stesso ministero ha approvato la Valutazione di Impatto Ambientale “relativa ad un programma di indagini della Petroceltic Italia srl in un’area a ridosso delle Isole Tremiti” (due parole due sulle isole). Contraddizione palese. Oppure addirittura inversione di tendenza?
I maligni mormorano che queste scelte non sono casuali. Il Fatto quotidiano ha pubblicato un articolo in cui si denuncia il conflitto di interesse della ministra che dovrebbe “vigilare sull’operato di colossi petroliferi che sono clienti di imprese legate alla sua famiglia”.
Ma le voci che circolano dicono forse di più. Le aziende (in questo caso, familiari) vengono impiantate a posteriori, non appena sono state individuate le disposizioni di legge che rendono favorevole l’intervento in un certo settore.
Una cosa comunque è certa, i permessi di trivellazione continuano a crescere. Secondo il dossier di Legambiente, in Italia nell’ultimo anno sono stati conecssi 21 nuovi permessi di ricerca per un totale di 41.200 chilometri quadrati. Sono pendenti inoltre 39 nuove istanze, 21 delle quali riguardano il Canale di Sicilia.
E non facciamoci illusioni. Noi, cittadini italiani, non ci guadagniamo nulla. I diritti pagati allo Stato italiano dalle compagnie petrolifere sono molto bassi, tra i più bassi del mondo (e sarebbe interessante capire perché…), e quindi vantaggiosi solo per le aziende, Il guadagno anche in termini occupazionali è bassissimo, trattandosi per lo più di compagnie straniere che operano con loro tecnici.
Il gioco non vale la candela, secondo Legambiente, anche per quanto riguarda la quantità. Nel dossier si forniscono le cifre, ricavate dai dati del Ministero dello Sviluppo economico. “Le riserve stimate sono pari a 187 milioni di tonnellate che, considerando il tasso di consumo del 2010 di 73,2 milioni di tonnellate, verrebbero consumate in soli 30 mesi, cioè in 2 anni e mezzo.”
Vale la pena di mettere a rischio turismo e pesca per così poco? Non si dovrebbe piuttosto intraprendere con decisione la strada dell’innovazione producendo energia da fonti diverse da quelle fossili?
Ad aggravare la situazione incombono inoltre leggi “ad trivellam”, come dimostra il decreto del 7 luglio che permette di aggirare il divieto alle attività di ricerca, prospezione ed estrazione di idrocarburi in mare per il Golfo di Taranto. Ma è attualmente in discussione in Parlamento anche un altro disegno di legge che prevede la “Delega al governo per l’adozione del testo unico delle disposizioni in materia di prospezione ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi”. Un provvedimento di semplificazione dell’iter autorizzativo che esclude qualsiasi motivazione di carattere ambientale ed è stato, per fortuna, bocciato all’unanimità dalla Commissione Ambiente del Senato. E’ ovvio che Legambiente si auguri non arrivi all’approvazione.