Ragazzini a rischio, che hanno come alternativa la strada o, al massimo, una tv. Sono quelli dei quartieri periferici di Catania, ai quali il governo Berlusconi vorrebbe togliere il tempo pieno, questa preziosa possibilità di imparare di più e di relazionarsi con gli altri, adulti e coetanei, in un ambiente protetto.
L’obiettivo del governo è la riduzione della spesa pubblica, e pazienza se i criteri sono suicidi per il paese perchè tagliare sulla formazione equivale a tagliare il futuro e condannare alla povertà. L’opportunità di avere delle ore di scuola in più viene invece considerata un lusso che si può sacrificare, trascurando il fatto che, proprio nei quartieri di periferia, quelli in cui la devianza è maggiore, il tempo pieno è un vero e proprio investimento, che può avere importanti ricadute didattiche e sociali.
Senza considerare che la scuola, in questi luoghi di frontiera, è anche l’istituzione che maggiormente segna la presenza dello stato e può contribuire a creare quel senso dello stato di cui rileviamo spesso la mancanza.
Ne è consapevole Santo Molino, da venticique anni dirigente dell’Istituto Comprensivo Pestalozzi, al Villaggio Sant’Agata, unica scuola di Catania ad avere il tempo pieno in tutte le classi della scuola dell’infanzia e della scuola primaria (le vecchie “elementari”). Più di mille alunni dai 3 ai 13 anni, tutti a scuola – tranne quelli delle medie – dalle 8,30 alle 16,30. E molti ci restano fino a più tardi e ci tornano anche il sabato, coinvolti in progetti di varia natura.
“Le famiglie sanno – ci dice Molino – che qui la scuola è a tempo pieno. Chi non lo vuole, sceglie di mandare i figli altrove”. Sanno anche che, se scelgono la Pestalozzi, i bambini avranno un pasto garantito dal Comune e la possibilità non solo di studiare sui libri, ma anche di lavorare la ceramica, imparare la musica, praticare degli sport, fare cioè delle cose che altrimenti non farebbero. E non sono cose secondarie perchè comportano un’educazione a tutto campo, dal rispetto delle regole al lavoro di squadra, dallo sviluppo della manualità alla acquisizione di una sensibilità artistica che affina e migliora la persona.
“Alle prove dell’OCSE PISA, i ragazzi del Sud – dice ancora Molino – fanno peggio di quelli del Nord (e abbassano la media nazionale). Eppure gli insegnanti sono meridionali anche a Milano. E i ragazzi non sono certo più stupidi. Hanno solo meno scuola. E’ il tempo pieno che fa la differenza”.
A Milano il 95% delle classi ha fatto fino ad ora il tempo pieno. Adesso le famiglie sono sul piede di guerra per contrastare i tagli, ma le percentuali rimangono ben diverse dalle nostre, dove viene messo in discussione anche quel poco che c’è.
Paradossalmente risulta che noi, contribuenti meridionali, abbiamo pagato per decenni il tempo pieno ai bambini del Nord lasciando i nostri ai cattivi maestri della strada, della televisone, a volte persino della violenza domestica.
Ma non basta. Deve essere chiaro che tagliare il tempo pieno nelle prime classi significa ipotecare il futuro. Una prima classe senza tempo pieno diventerà una seconda dello stesso tipo e così fino alla quinta. Per trascinamento andranno perdute ore ed insegnanti, a volte molto attivi ed impegnati. Perchè i tagli cancellano i posti di lavoro insieme alle opportunità di crescita dei ragazzi.
A causa dei tagli previsti dalla Gelmini, la scuola aveva subito già una riduzione, da sei a quattro classi. Per il prossimo anno scolastico l’Ufficio Scolastico Provinciale, costretto a restare dentro il tetto imposto da Roma e da Palermo, ha proceduto ad un taglio ulteriore e ha negato il tempo pieno alle quattro prime rimaste.
Sapendo che, in prospettiva, anno dopo anno, con questo provvedimento sarebbe stato ucciso il tempo pieno in tutta la scuola, Molino si è impuntato. Ha protestato, ha minacciato, forte anche del suo ruolo di presidente provinciale dell’ANDIS.
Ha ottenuto alla fine una paradossale soluzione di compromesso. Nell’organico di diritto le classi a tempo pieno sono state reintrodotte, ma … senza personale. Un assurdo, che Molino ha accettato come una sfida, ma che assurdo rimane.
Il dirigente ha cominciato a ragionare sui resti. Un resto può essere rappresentato per esempio dalle ore di compresenza previste dalla contitolarità di due insegnanti nella stessa classe di tempo pieno (4 ore settimanali fino ad ora utilizzate anche per attività di potenziamento o recupero, talora per supplire un collega). Ma sarebbe solo un escamotage perchè la contitolarità verrebbe comunque a mancare e non sarebbe garantita la continuità didattica. E comunque quattro ore residue in quattro classi non sarebbero sufficienti. Si rischia di turbare anche l’andamento delle classi seconde o terze.
Ci sono altri “resti” su cui si può ancora sperare. Sono gli insegnanti in soprannumero, prodotti proprio dai tagli, che il
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