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Una casa "fuori dal comune" per gli sfrattati dal palazzo delle Poste

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Ancora un racconto-denuncia di Giovanni Sciolto, che ha visitato i suoi amici somali nella nuova “residenza”  di via Coppola.
Sharif ricorda quelle parole ma non ne conosce esattamente il significato. Sono anni che nessuno glielo dice. Suo padre glielo urlava arrabbiato quando voleva punirlo per avergli disobbedito.
Quelle parole, suo padre, le aveva imparate dagli Italiani in Somalia. Anche loro glielo urlavano arrabbiati quando volevano punirlo o semplicemente quando non gradivano un negro tra i piedi.
Reminiscenze di un passato che, come un fiume carsico, riaffiora e scompare dalla vita dei migranti in maniera intermittente e disordinatamente ciclica.
Per quasi un mese i giovani somali sgomberati dal Palazzo delle Poste di Catania avranno pensato alla loro infanzia. All’acqua della fonte. Alle pentole sulla testa.
Solo da due giorni infatti l’acqua corrente scorre dai rubinetti della casa in cui il Comune di Catania si è premurato di trasferire i ragazzi.
E’ un edificio molto vecchio, in via Coppola. In ristrutturazione. Così pare dai sacchi di cemento e dalle travi in ferro all’ingresso. Si sale per una scala e al primo piano vivono una decina di ragazzi, tutti di origine somala. Rifugiati politici.
Le prime camere sulla sinistra sono chiuse con dei lucchetti. Vuote. Un faro attaccato ad una prolunga (il tipico faro da esterni) illumina la casa. Sulla porta del bagnetto una scritta in lingua somala invita gli inquilini a lasciare il pavimento asciutto dopo la doccia.
La cucina è una piccola stanza. Una bombola di gas collegata ai fornelli per non sentire nostalgia del Palazzo delle Poste. Ahmed sta preparando gli spaghetti.
“Finalmente è arrivata l’acqua! Per un mese, quasi, andavamo a prenderla nella fontana qui vicino.”
Con un sorriso accennano al fatto che la manovra doveva essere abbastanza veloce perché le prostitute della zona iniziavano a lamentarsi del fatto che i clienti non si avvicinavano a causa della loro presenza.
Entriamo in una delle camere. Samir mi lancia un cuscino. Dopo qualche minuto entra un altro ragazzo con un thermos pieno di the. E’ quella dimensione che tanto mi mancava. Il cerchio intorno al the. Il flusso di informazioni, i consigli. Le esperienze tanto diverse ma così complementari.
Dopo un’ora di piacevole confronto su temi di geopolitica, l’interesse del cerchio si sposta sulla lingua.
E così riaffiorano le sensazioni dimenticate. I ricordi nascosti. Quelle parole. Le parole che Sharif ricorda ancora ma che aveva dimenticato. Sorpreso ne riconosce il suono.
Non parla l’italiano ma quelle parole le conosce. Ride. Pensa. Ricorda. Erano stati i suoi amici a spiegarmi il perché di quelle parole che erano diventate d’uso comune nella zona presidiata dagli Italiani. Parole che palesano un rapporto, tra colonizzatore e colonizzato.
Parole che oggi sono state addolcite e tradotte per poi essere amplificate e applicate alla società tutta. Oggi li chiamiamo respingimenti. Un tempo ai padri di Sharif, di Ahmed e degli altri urlavamo in faccia Fuori dal Cancello.
Leggi il blog di Giovanni, Il ghetto dei fenicotteri

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