Nel mese di maggio, a Palermo, si è svolto il congresso nazionale della SIMM (Società italiana di medicina delle migrazioni), all’interno dei lavori, una giornata è stata specificamente dedicata alle politiche per la salute degli stranieri.
In premessa, come scrive Maria Grazia Messina, va detto che “la situazione giuridica e sociale di un migrante può variare (in Europa, n.d.r.) sensibilmente in funzione del paese di destinazione, e nel caso dell’Italia è mantenuto un alto grado di ambiguità anche all’interno del territorio nazionale, se non addirittura interregionale”.
L’ Unione Europea, non avendo una competenza formale sull’immigrazione, assume come principio inderogabile la potestà dei singoli stati membri nel campo dei servizi per la salute. Ciononostante, nel marzo 2011 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione con la quale si chiede espressamente agli stati membri di affrontare il problema della disparità nell’accesso alle cure sanitarie anche per gli immigrati irregolari.
E ciò, soprattutto, rispetto a patologie (quali ad esempio HIV/AIDS, tubercolosi e altre minacce transfrontaliere) potenzialmente pericolose per l’intera comunità. In effetti, l’art. 5 del trattato di Lisbona permette alla Comunità di intervenire nei settori rispetto ai quali non ha competenza esclusiva solo quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa dai singoli stati.
In Italia solo con l’emanazione del testo unico sull’immigrazione (1998) ci si è posti il problema della realizzazione dei servizi sanitari anche per coloro che non sono cittadini italiani. “Da quel momento, prosegue Messina, si è assistito a una sovrabbondanza di disposizioni […] che, nella concorrenza di competenze fra stato e regioni […] non sempre ha permesso un’uguale fruibilità dei servizi sanitari offerti ai non cittadini”.
Una situazione ulteriormente complicata dall’approvazione del cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ (2009). Il Governo, infatti, utilizzando questa normativa, e ritenendo che su tali questioni la competenza fosse esclusivamente statale, ha dichiarato illegittime le leggi regionali varate da Toscana, Puglia e Campania poiché estendevano il diritto alla salute anche nei confronti degli irregolari.
Fortunatamente, la Corte Costituzionale ha dato torto al Governo, affermando un principio di cittadinanza materiale valido per tutti coloro che sono presenti nel territorio nazionale, indipendentemente dallo status che viene loro riconosciuto dal diritto vigente.
Emerge dunque, anche nel nostro Paese, un quadro di interventi non ancora unitario, all’interno del quale, come ha rilevato una ricerca della Caritas, permangono significative disparità fra le varie regioni “in quanto molte, come sottolinea Messina, non si sono ancora dotate di linee guida e solo la metà di esse ha provveduto alla costituzione di osservatori per il monitoraggio e la valutazione del fenomeno migratorio nei suoi molteplici aspetti e sulle sue ricadute in termini di impatto in ambito sanitario”.
In effetti, sono molteplici gli indicatori di cui tener conto per valutare se è garantito realmente il diritto alla salute: accesso ai servizi, fruibilità degli stessi, lettura dei bisogni. Sempre secondo la Caritas, occorre migliorare sia durante la fase della prevenzione che nel momento della presa in carico del soggetto che richiede una prestazione sanitaria.
Occorre, perciò, investire nella formazione di tutti gli operatori coinvolti, ma anche nel campo dei ‘sistemi relazionali’ (materiali informativi multilingue, supporto dei mediatori linguistico-culturali, meccanismi di riorientamento organizzativo e procedurale). Un investimento decisamente urgente se si vogliono evitare ulteriori colpi alla già fragile coesione sociale che caratterizza il nostro Paese.
Tratto da: Maria Grazia Messina, sudsanità, n°3, giugno 2011
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