“Pozzallo con le sue bellissime spiagge dorate di sabbia fine ed un mare blu, limpido e pulito, rappresenta un
suggestivo patrimonio naturale, premiato dal 2002, con la ‘Bandiera blu’.” Così viene descritta la costa nel sito del Comune di Pozzallo.
Fra qualche tempo dovranno aggiungere che da essa si gode una magnifica vista sulle piattaforme e sulle trivelle che estraggono petrolio a poche miglia di distanza.
Il Canale di Sicilia, lato nord, sembra tornato ad essere l’Eldorado dei petrolieri di mezzo mondo. Una raffica di richieste di avvio delle procedure per la ricerca di idrocarburi si sta abbattendo su molti Comuni del ragusano, dell’agrigentino e del trapanese. Altra che minacce di missili libici.
La Transunion Petroleum Italia nel fondale dello specchio d’acqua davanti alla costa iblea; l’Audax a 13 miglia da Pantelleria; nella stessa zona Agip e Edison hanno già chiesto ufficialmente di poter iniziare a trivellare in un perimetro di 171 chilometri quadrati; la Northern Petroleum e Shell
Ma la richiesta più incredibile è arrivata da Hunt Oil Company, che vorrebbe iniziare ad esplorare i fondali intorno all’ex isola Ferdinandea, tra Sciacca e Pantelleria, praticamente sopra la bocca di un vulcano sommerso ancora attivo.
Come scrive F. Formica per National Geographic “a est e a sud delle coste siciliane sono già in funzione cinque piattaforme e altre potrebbero sorgere vicino a Pantelleria e al largo di Licata e di Agrigento. A queste si aggiungono i 12 permessi di esplorazione già concessi più altri 24 che attendono il parere del ministero dello Sviluppo Economico”
Da parte degli enti locali, bisogna dire che molti sindaci -quelli di Pozzallo e di Ragusa ad esempio- si stanno mobilitando per fare fronte comune contro questa invasione di campo che rischia di distruggere quanto si è fatto in questi anni per il rilancio delle attività turistiche in una dimensione ecosostenibile.
La Regione, dal canto suo, ha approvato nell’estate 2010 una delibera in cui si esprime “netta contrarietà” a nuove trivellazioni in mare. Non sembra, tuttavia, che questa posizione possa avere peso reale dato che, a differenza dei pozzi petroliferi su terra, lo sfruttamento di risorse off-shore è di competenza esclusiva di Roma.
Su questo versante, è vero che nel giugno 2010, il Governo italiano ha approvato un decreto legislativo 128 che proibisce qualsiasi attività legata al petrolio e al gas sia a meno di 5 miglia dalle coste di tutto il territorio nazionale e di 12 miglia dalle aree protette, ma anche sugli effetti pratici di questa legge si nutrono forti dubbi.
Una trivella posta a 12 miglia e 1 metro dalla costa che dovesse avere problemi, si farebbe un baffo della faccia finto-truce della ministra Prestigiacomo.
Ci guadagnassimo almeno decentemente! Neanche a parlarne.
Il paradosso, la beffa o la presa per i fondelli -chiamatela come volete- consiste nella più totale antieconomicità di questi eventuali permessi di estrazione: sembra che lo Stato italiano potrebbe chiedere infatti royalty che a malapena raggiungerebbero il 4 per cento, contro l’85 chiesto da Libia e Indonesia, l’80 da Russia e Norvegia, il 60 dall’Alaska e il 50 per cento dal Canada.
Si aggiunga inoltre che la franchigia per le piattaforme off-shore è di circa 50.000 tonnellate di greggio l’anno, equivalenti a 300 mila barili di petrolio. Sotto questo tetto di estrazione, le società non sono tenute a pagare nemmeno l’esiguo 4 per cento.
E tutto questo, mentre il cavalier Cetto Berlusconi si esercita al gioco delle tre carte con i referendum sul nucleare e sulla privatizzazione dell’acqua pubblica.
Italia, paese di poeti, santi, navigatori e, ultimamente, anche di imbecilli.
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