Non è stata per loro un’esperienza romantica, ma un’esperienza tragica, anche se positiva. Per questo motivo i Tunisini non amano chiamarla “Rivoluzione dei gelsomini” e preferiscono parlare di “Rivoluzione di libertà e di dignità”. Lo ha detto Karim Hannachi, professore tunisino, sabato pomeriggio all’assemblea del CoPe, dove è stato invitato a parlare dello stravolgimento avvenuto nel suo paese, che ha aperto la strada ad analoghi movimenti di riscossa sulla sponda sud del Mediterraneo.
Rivoluzione pacifica, spontanea, popolare, senza leader e senza idelogie. Rivoluzione organizzata dal basso, attraverso i nuovi strumenti telematici, internet, Facebook, con il sostegno di Al Iazeera Questo il ritratto che ha fornito della sollevazione tusinisina, operata da un popolo stanco di un regime dispotico e corrotto. “Il pane non c’entrava più”. Quella tunisina è stata infatti una rivoluzione politica, perchè il male, ha insistito Karim, non è un fatto della natura, è sempre frutto della cattiva politica e si può cancellare solo con la lotta politica, che è poi l’essenza della democrazia.
Nessuna violenza, molta determinazione. “Superata la soglia della paura, nulla poteva più intimidirci”, né gli spari, né il coprifuoco. La decisione spontanea di studenti, medici, avvocati, insegnanti, di tutto il popolo è stata di non lasciare soli coloro che, dopo il gesto tragico di Mohamed Bouazizi, erano scesi in piazza per manifestare. La potente polizia di Ben Alì, strumento della repressione violenta, si poteva contrastare solo moltiplicando le proteste e “uscendo” sulle piazze. Contro una città che insorge si possono concentrare tutte le forze, non lo si può fare se si muovono tutte le città, vengono invase tutte le piazze.
“Se il popolo vuole la libertà, il destino non può che ubbidire”. E’ una frase dell’inno nazionale ed è diventato lo slogan dei dimostranti, cantato in tutte le manifestazioni, accanto ad un altro slogan, ormai diffuso anche negli altri paesi arabi in rivolta “Il popolo vuole rovesciare il regime”. E ancora, più sinteticamente, “Via”.
Ma la rivoluzione, la vera trasformazione del paese, è solo all’inizio. “Dobbiamo riscrivere la Costituzione, fare la legge elettorale, andare a libere elezioni. Non è facile”. Sono nati molti partiti, c’è il rischio che qualcuno cerchi di cavalcare la rivoluzione per altri interessi, bisogna vigilare perchè non si ritorni al vecchio partito con altro nome, perchè l’ingerenza straniera non stravolga la volontà del popolo, anche servendosi di organismi apparente neutrali come il Fondo Monetario Intenazionale e l’ Organizzazione mondiale per il commercio (WTO).
Non sono teneri con il comportamenteo dell’Occidente, i tunisini. La preoccupazione più diffusa in Europa è stata quella realtiva all’ondata migratoria. Seguita da quella del fondamentalismo islamico. Invece di leggere le possibilità insite in questi sconvolgimenti, l’Occidente ha solo resuscitato i suoi fantasmi.
Anche in Tunisia sono arrivati degli immigrati. Ne sono arrivati circa 200.000, nulla rispetto ai numeri di Lampedusa. Ma sono stati aiutati in modo attivo e solerte da medici, studenti, volontari che facevano centinaia di chilometri per portare loro provviste, come Karim ha visto con i propri occhi.
Si sono tranquillizzati, gli Occidentali, quando hanno visto che non venivano bruciate le bandiere statunitensi o israeliane. E forse non hanno capito che i Tunisini, e non solo loro, non hanno dimenticato la Palestina. E questo perchè considerano le ingiustizie della Palestina come il termometro dei rapporti tra Occidente e mondo arabo. Ecco perchè, dice Karim, la prossima sfida della rivoluzione araba sarà la Palestina.
I problemi relativi all’islamismo e alle migrazioni sono stati poi ripresi nel dibattito. Karim Hannachi non nasconde che il partito islamico è quello più organizzato, anche perchè può contare sulle moschee. Ma non teme che si arrivi alla creazione di uno stato islamico integralista. Il partito islamico si ispira infatti al modello turco e in Tunisia c’è una tradizione laica. Sono inoltre presenti più religioni. E tra le regole per essere ammessi alla competizione elettorale c’è quella di non potersi presentare come unici portavoce di una religione o di una razza.
Perchè allora, in un paese che deve essere ricostruito, molti giovani tunisini scappano per raggiungere le nostre coste? La risposta non è facile, dice Karim. Vari e complessi sono gli elementi in gioco. Uno di questi è certo il ricongiungimento con i familiari, residenti soprattutto in Francia, ma pesa anche il mito della ricchezza occidentale.
Molti sono abbagliati dal benessere italiano che vedono nei programmi televisivi, non vogliono più accontentarsi di stipendi modesti che consentono solo di sopravvivere. Altri non vogliono aspettare di vedere cosa succederà in Tunisia, vogliono approfittare della possibilità di espatrio offerta oggi da un governo ancora precario e da una polizia disorientata.
Ci sono poi quelli che fuggono dalla giustizia. Non solo coloro che sono evasi dalle prigioni durante i tumulti, ma anche coloro che hanno sparato sui dimostranti o compiuto altre violenze per conto del regime. Sanno che c’è la determinazione di processarli e si rifiutano di sottoporsi al giudizio.
Ai Tunisini che restano si offre l’opportunità di essere i protagonisti del cambiamento del loro paese. Hanno cacciato un tiranno perchè hanno avuto costanza, non hanno mollato. Non si può fare uno sciopero, una dimostrazione, e poi andare in pizzeria a divertirsi, dice Karim. Bisogna rimanere sul posto fino a quando non si ottiene quello per cui si lotta. Una lezione da imparare, anche per noi italiani.
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