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Testimoni coraggiosi

La possibilità di aprire gli occhi su una realtà poco conosciuta è stata offerta nel pomeriggio di venerdì scorso da due momenti di incontro organizzati dall’associazione Rita Atria, alla libreria Selinoon e nella sede della CGIL. Si è parlato dei testimoni di giustizia e con alcuni di loro. A partire dalla presentazione di un libro, Tra l’incudine e il martello, di Angelo Greco, edito da Pellegrini.
Spesso confusi con i collaboratori di giustizia, altrimenti detti pentiti, i testimoni di giustizia dovrebbe più opportunamente essere chiamati testimoni e basta. Sono infatti persone che non hanno compiuto reati ma hanno assistito ad essi o ne sono stati vittime. E hanno deciso coraggiosamente di denunciare.
Oggi la loro posizione è contemplata all’interno di una legge (la 45 del 2001) che riguarda in generale le figure dei collaboratori. Nel capo II viene tratteggiata la figura del testimone di giustizia e si indicano le misure previste per la sua protezione. Il fatto che la legge sia unica per collaboratori e testimoni conferma il rischio di un equivoco, che sta anche nei termini. Un collaboratore (pentito) è quasi sempre anche un testimone e un testimone di giustizia è sempre un collaboratore.
Questi testimoni hanno un ruolo importante per la giustizia perchè permettono non solo di individuare l’autore di un delitto e di incastrarlo sulla base di una testimonianza oculare, ma in particolar modo di farlo in contesti pericolosi e impenetrabili, quelli in cui sono presenti associazioni di stampo mafioso.
In questi casi gli investigatori, quando non sono anch’essi vittine della paura e dell’opportunismo, sono spesso impossibilitati a procedere a causa dell’omertà diffusa, che crea di fatto una barriera protettiva intorno al deliquente.
Nel caso, raro, in cui un testimone decida di denunciare reati di questo tipo, si espone non solo a minacce e vendette che possono costargli la vita, ma anche all’emarginazione che il contesto, impaurito o connivente, gli riserva.
Per fare la scelta di denunciare bisogna quindi avere un grande coraggio morale (e fisico) e uno spiccato senso di responsabilità civile. E’ quello che ha dimostrato di possedere un testimone, chiamato in codice Ulisse, presente all’incontro. Egli ha deciso, insieme a sua moglie (e anche questo è un fatto raro) di andare a denunciare il responsabile di un omicidio a cui aveva casualmente assistito.
Questa scelta coraggiosa gli ha cambiato la vita, concretamente e definitivamente. Ha dovuto andare via dal proprio paese, lasciare la sua casa e i suoi beni, affidarsi per un certo tempo alla protezione dello Stato. Ma non ha voluto cambiare generalità. Poi ha fatto da solo, e solo ancora si sente. Ha più che altro contatti con altri testimoni come lui. E quelli che sono totalmente estranei ai fatti denunciati sono un piccolo numero (sei/sette su circa 70).
Negli anni novanta, quando ancora la legge 45/2001 non esisteva, le modalità di intervento dello stato erano abbastanza improvvisate, adesso rispondono a un protocollo abbastanza definito, ma non ancora soddisfacente.
Il cambio di generalità lo ottengono in pochi, per lo più si ricevono dei documenti di copertura, spesso consegnati con gravi ritardi. Questo comporta conseguenze pesanti, perchè senza documenti, senza un nuovo codice fiscale, il testimone non può, ad esempio, avere un medico di base e accedere alle cure mediche, non può prendere la patente, ha difficoltà ad iscrivere i figli a scuola e così via. A volte i documenti “falsi” sono poco convincenti e creano sospetti nel corso di controlli eventuali da parte di forze dell’ordine non informate del caso.
Lo stato si assume anche l’onere di mantenere il testimone durante il periodo in cui è sottoposto al programma di protezione. A norma di legge, dovrebbe farlo permettendogli di conservare lo stesso tenore di vita precedente alla denuncia. Ma è difficile che questo avvenga.
C’è di più,. La protezione a volte ha termine nel momento in cui il responsabile del reato è stato condannato in via definitiva, sebbene la legge parli di “effettiva cessazione del rischio, indipendentemente dallo stato e dal grado in cui si trova il procedimento penale”. Bisogna infatti tenere conto che rimangono circolanti altri membri dell’associazione mafiosa e che il ritorno a casa è reso impraticabile anche dal giudizio sociale che pesa negativamente sull’infame che ha rotto il silenzio omertoso, condannandolo al disprezzo e alla solitudine.
Ecco, la solitudine. E’ questa la parola che più ricorre, l’esperienza che pesa maggiormente sulla vita di chi denuncia. Una solitudine che parte spesso dalla famiglia stessa, che emargina il testimone, perchè non vuole rompere l’omertà, sia per paura sia per non perdere i vantaggi dell’inserimento sociale in quel contesto.
Non tutti possono vantare una famiglia che faticosamente si è conservata unita come quella di Ulisse. Anzi a volte è proprio contro la famiglia che bisogna schierarsi. E’ quello che ha avuto il coraggio di fare Piera Aiello, cognata di Rita Atria, la ragazza che aveva seguito il suo esempio e che si è uccisa dopo la morte di Paolo Borsellino.
Piera ha visto uccidere suo marito, un uomo violento che non la trattava certo con i guanti, ma che era comunque il suo uomo, e ha scelto di denunciare. Era giovane, aveva una bimba piccola, ma era decisa. Non sapeva allora quanto la sua vita sarebbe cambiata. Non sapeva che avrebbe dovuto cambiare più volte identità, passare da una residenza all’altra, affronatare la solitudine e il sospetto anche nei luoghi in cui veniva portata.
Adesso, dopo tanti anni, si è fatta una nuova vita. E’ ancora giovane, non ha perso la grinta. Ha avuto un sostegno molto forte da Nadia Furnari, la fondatrice a Milazzo di una associazione antimafia molto attiva. L’associazione si chiama Rita Atria e ha oggi come presidente, in barba alle difficoltà burocratiche, proprio Piera Aiello.
Anche molti imprenditori, soggetti al pizzo e alle vessazioni della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra, cominciano a denunciare, perchè non riescono più a portare avanti la propria attività a causa delle ingiunzioni mafiose. Da vittime diventano testimoni.
Angelo Greco, autore del libro, di professione avvocato, anche se civilista, ha individuato delle proposte per migliorare la legge 45, ma soprattutto insiste sui limiti della sua attuale applicazione. Molti testimoni si trovano ad affrontare dei contenziosi con lo stato perchè ritengono di non aver ottenuto quanto ad essi spettava o di essere stati comunque danneggiati. Ecco perchè si trovano “tra l’incudine e il martello”. Ancora una volta soli.
Certo le difficiltà incontrate dai testimoni non incoraggiano il cittadino comune ad avere il loro stesso coraggio. Eppure sta proprio nella “normalità” delle denunce la soluzione del problema. Se denunciassimo, con coerenza e senso civico, i testimoni non sarebbero eroi solitari e penalizzati. Rimarrebbero a casa loro, con i familiari e gli amici. Sarebbero i mafiosi e i loro accoliti ad essere costretti ad andar via.
Denunciamo quindi e insegniamo ai nostri figli che questa è la strada giusta. Piera e Ulisse potranno tornare a casa.

Argo

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  • sono pienamente d'accordo.bisognerebbe fare propaganda nelle scuole per educare i ragazzi al senso di appartenenza ad una società civile e solidale.

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