Abbiamo chiesto anche al prof. F. Coniglione, ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Catania, un giudizio sui diversi aspetti della riforma dell’università.
Restano tuttavia gravi elementi di pericolo e tante belle parole, la cui traduzione in pratica è demandata ai futuri regolamenti applicativi.
Ma il problema grave è voler fare tutto “senza maggiori oneri per le finanze pubbliche”, come si ripete di continuo nella legge. Se non ci si convince che sulla cultura e sull’università bisogna investire per superare il gap che separa l’Italia da tutti i paesi dell’OCSE, questa riforma si trasformerà di sicuro in un elemento di regressione, specie per l’università statale e pubblica.
La tabella a fianco riportata dimostra come i nostri governi stiano lavorando da tempo in questa direzione.
• Fino a che punto l’attuale riforma rispetta il principio dell’autonomia sancito dal decreto 270 dell’ottobre 2004?
Ritengo che sul concetto di autonomia ci sia stato sempre un grande equivoco. Se l’autonomia viene concepita così come sinora fatto, allora è bene che essa venga ridimensionata.
Se invece l’autonomia comporta un ferreo rispetto del principio di responsabilità, per cui ciascuno (dal rettore ai singoli dirigenti di tutte le strutture) è chiamato a rispondere di quello che fa, sia dal punto di vista della corretta amministrazione sia dell’efficienza complessiva del sistema (e quindi anche didattica e scientifica), allora ben venga.
In questa direzione mi pare che la legge di riforma faccia dei timidi passi, anche se poi questi vengono vanificati da pesanti ipoteche, come quella relativa al rischio di un ingresso della partitocrazia nella gestione dell’università.
In generale non lo limita affatto e laddove invece lo fa, mi pare che corra il rischio di sostituire ad esso qualcosa di assai più pericoloso. Non lo elimina, in quanto il meccanismo concorsuale è tutto nelle mani dei professori ordinari, senza la presenza di associati e ricercatori, e quindi il loro potere di cooptazione si è ulteriormente rafforzato.
Laddove lo limita – ovvero nella cosiddetta governance dell’ateneo – la legge fa correre il rischio di sostituire ad esso quello dei membri esterni, previsti nel nuovo Consiglio di Amministrazione.
Il fatto che il Senato sia stato ridotto a meri compiti consultivi e che il CdA abbia l’ultima parola anche sulle questioni accademiche e sulla ricerca apre la via alla possibile influenza esterna, anche di natura politica e clientelare.
A seconda di come saranno modificati gli Statuti di ateneo, si potrebbe infatti arrivare alla completa esclusione dei professori ordinari in servizio, tranne il rettore, dal nuovo Consiglio di amministrazione che potrebbe pertanto essere costituito prevalentemente da personalità al di fuori dell’università e designati anche da organismi istituzionali o imprenditoriali, mettendo la gestione dell’università a rischio di spartizione politica.
Certo, una riforma della governance era necessaria, nel senso di introdurre in essa elementi di maggiore responsabilizzazione personale, specie in merito alla gestione economica finanziaria.
Tuttavia non penso che la soluzione posta in atto sia quella migliore. Sarebbe stato sufficiente, a mio avviso, avere dei nuclei di valutazione e dei revisori dei conti autenticamente indipendenti. L’attuale legge impone già che il nucleo di valutazione sia prevalentemente composto da esterni all’ateneo, ma il vero problema è: chi li nomina? Su ciò la legge non dice nulla e rimanda agli statuti di ateneo. È facile immaginare come andrà a finire.
Le cose migliorano con i tre revisori dei conti, la cui maggioranza è designata all’esterno dell’università: ma perché dal Ministero dell’Economia e dal MIUR e non dalla Corte dei Conti?
Questa mi pare la classica misura atta solo a cogliere il consenso popolare dando l’impressione della moralizzazione. Innanzi tutto per gli ordinari la legge non impedisce che vengano assunti nello stesso ateneo, ma solo nello stesso dipartimento: quindi attraverso degli scambi incrociati il problema può essere superato facilmente. E cosa impedisce a un rettore di fare altrettanto con il rettore amico dell’ateneo vicino? Vuol dire che invece di avere il figlio nello stesso edificio, lo avrà nella più vicina università. E tutto ciò verrà favorito col meccanismo concorsuale così come è stato concepito.
Già in precedenza era possibile dare dei contratti a professionisti di elevato profilo o a studiosi di “chiara fama”. Poi, come al solito succede in Italia, le dighe si sono aperte e si sono dati contratti anche a coloro che hanno appena preso il dottorato o semplicemente a professionisti amici o parenti. Nel caso peggiore, una sorta di clientelismo spicciolo; nel caso migliore, un modo per dare un salario di sussistenza a qualche brillante giovane in attesa di un assegno di ricerca o di un posto di ricercatore.
Il fatto di mettere il limite di 40.000 euro (art. 23, c. 1) mi pare risponda nel modo più perfetto all’etica dei tempi nostri: se guadagni vali, se non guadagni non sei nessuno. Se fai soldi, allora sei anche un eccellente studioso o conoscitore della materia, altrimenti non vali niente.
Del resto lo stesso Presidente Napolitano, nel promulgare la legge, ha osservato come questa norma «appare di dubbia ragionevolezza nella parte in cui aggiunge una limitazione oggettiva riferita al reddito ai requisiti soggettivi di carattere scientifico e professionale».
Inoltre questo vincolo toglie la possibilità ai giovani brillanti e che non sono inquadrati in nessuna amministrazione di accedere in qualche modo alla docenza e ad una forma di mantenimento, in attesa di ottenere una idoneità o dopo di essa.
Le università non-statali o private hanno sinora avuto un trattamento di favore, come ad esempio la possibilità di non rispettare, o farlo in modo parziale e con ampie deroghe temporali, i requisiti minimi fissati con estremo rigore per le università statali (che impongono, per citare solo un caso, un numero minimo di docenti per poter attivare dei corsi di laurea). Eppure molte di esse partecipano del finanziamento statale.
In particolare, le cosiddette università telematiche sono un autentico scandalo: si mettono su università che rilasciano titoli a tutti gli effetti a volte con un solo docente di ruolo e tutti gli altri ricercatori non confermati o contrattisti a vario titolo, in genere giovani neodottorati reclutati con stipendi da commessi.
La situazione è qui anche peggio delle scuole paritarie, perché queste alle fine devono fare i conti con lo sbarramento dell’esame di stato con una commissione in parte esterna. Le università telematiche e molte delle private, invece, non hanno nessun tipo di controllo e rilasciano lauree a tutti gli effetti come e a chi vogliono.
Nella legge non mi pare ci siano miglioramenti rispetto a questa situazione: tutte le norme vincolanti e che vorrebbero avere effetto moralizzante cominciano sempre con l’inciso: “le università statali…” (come ad es. l’importante art. 2 sugli organi e l’articolazione interna delle università).
I meccanismi che si sono sinora escogitati, per evitare le cordate accademiche o i nepotismi, non hanno mai sortito l’effetto desiderato.Probabilmente non esiste il meccanismo perfetto che impedisca il malaffare e garantisca la vittoria del migliore.
Occorre quindi pensare a una procedura che allenti lo stretto legame tra potentati locali o “filiere familiari” e accesso alla docenza/ricerca universitaria e così eviti che l’“asino locale” sia favorito – attraverso uno scambio di favori – solo perché così si vuole da parte dei suoi protettori.
Insomma una procedura che lasci spazio alla cooptazione basata su basi scientifiche ed avallata dalla corporazione accademica della disciplina (perché la “cooptazione virtuosa” è la norma di tutte le università del mondo).
L’istituzione dell’abilitazione nazionale e della successiva chiamata degli idonei nelle singole università va nella direzione dei sistemi di reclutamento dei paesi europei (ma non degli Stati Uniti). È pertanto un passo in avanti rispetto alla situazione esistente con la legge del 1998, che ha portato al provincialismo e al localismo nella assunzione del personale docente e di ricerca.
Ciò detto vi sono degli elementi che possono però lasciare le cose come stanno o addirittura farle peggiorare. Il tanto lodato sorteggio previsto per la formazione delle commissioni nazionali di valutazione corre il rischio di far prevalere, a mio avviso, una politica di appeasement: dato che l’idoneità è a numero aperto, si tenderà a non scontentare nessuno, tanto più se questi è organico ad una cordata accademicamente forte o è ben protetto (anche “familiarmente”).
Dopo che l’idoneità è stata ottenuta, però, la palla passerà ai Dipartimenti e alle Università, che si troveranno prevedibilmente molti idonei della stessa sede o delle disciplini afferenti, tra i quali dovranno scegliere per motivi di bilancio (a meno di non far esplodere nuovamente la spesa); e chi ci assicura che queste scelgano con acume tra i molti idonei, preferendo i migliori o quelli disciplinarmente più utili e funzionali alla ricerca e non i
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