Era la sera del 5 gennaio del 1984 quando i sicari del clan Santapaola-Ercolano uccidevano con cinque colpi di pistola alla nuca il giornalista e scrittore Pippo Fava. Fava aveva appena lasciato la redazione de I siciliani, il mensile da lui fondato e diretto. Oggi, 5 gennaio 2011, molte le iniziative per ricordarlo.
A noi è piaciuto rileggere un suo vecchio racconto. Fa parte di un libro, “Pagine”, casa editrice I.T.E.S., che raccoglie i più bei pezzi letterari pubblicati sul giornale La Sicilia. Sono ventisei racconti e quaranta passi di diario, suddivisi nell’arco di un anno, più alcuni disegni. Alcuni racconti trattano di argomenti e personaggi reali; altri sono bozzetti di fantasia. Ecco come vengono presentate nella prefazione “le costanti umane di questo libro”. “L’Amore. Anche quello della puttana Luisa che vendeva tecnicamente piacere, è amore… e anche l’infelicità di Giovanni che s’innamorò di un vecchio… La Paura misteriosa del dolore, la paura di correre per tutta la vita, lottare e sopportare dolori: arrivare alla fine… senza che ci sia altro. Nulla…Il Grottesco della condizione umana...”
Il racconto che vi proponiamo s’intitola Reporter e descrive in modo ironico, l’ambiente, talora cinico e spregiudicato, del giornalismo. Oltre la letteratura, ecco cos’era per Fava il giornalismo. Così lo definì nel 1981 in un editoriale de Il giornale del Sud da lui diretto.
“Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è stato capace di combattere”.
Reporter
Un reporter che si chiamava Antonio. Era alto un metro e novanta, aveva dei baffi enormi e spioventi ed era stato ufficiale di cavalleria. Non sapeva letteralmente scrivere una sola frase in corretto italiano, tuttavia era gigantesco e nessuno aveva mai osato licenziarlo; poi era anche profondamente buono verso gli amici, molti dei quali erano piccoli di statura, gracili, gialli, velenosi e di spaventosa intelligenza; lo dominavano a tal punto che egli si comportava grosso modo con la devozione di un enorme cane: li seguiva, approvava sempre, non parlava mai, era disposto a tutto, li difendeva, faceva qualsiasi lavoro in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Una sera arrivò la notizia che un aereo di linea indiano era caduto alla frontiera con il Pakistan e che tutti i quaranta passeggeri erano morti: le telescriventi cominciarono a dare l’elenco delle vittime, con le rispettive nazionalità, e così si apprese che era morto anche un ingegnere catanese che si trovava in Asia per un viaggio di affari. Bisognava dunque procurare la fotografia della vittima prima che arrivassero a farlo i cronisti dei giornali concorrenti. Il giornale di cui vi parlo era infatti piccolo e poverissimo, ma aggressivo e pieno di idee: si decise infatti di prelevare tutte le fotografie del morto, in modo da non lasciarne nemmeno una ai giornali concorrenti, e naturalmente se ne dette incarico ad Antonio, poiché egli era anche così forte e così mite, così contento della vita, da partecipare sempre e sinceramente al dolore degli altri.
Chi sa, però, che gli accadde quella volta, quando bussò alla porta di quella famiglia. O che fosse particolarmente allegro chi gli venne ad aprire, o che gli facessero tutti simpatia. Quando sentirono che c’era un reporter il quale chiedeva la fotografia del loro parente lontano, tutti si affollarono infatti nella saletta d’ingresso a chiedere ansiosamente cosa fosse accaduto.
«Allegri — disse Antonio — l’ingegnere aveva comperato un biglietto della lotteria indiana e ha vinto il primo premio! Quaranta milioni. E’ arrivata la notizia al giornale». Prima di dargli le fotografie dell’ingegnere lo fecero entrare in salotto, gli offrirono liquori e caffè, telefonarono a parenti e amici per comunicare la notizia e invitarli a festeggiarla insieme; e Antonio sempre in mezzo a loro. Ballarono anche, il divertimento era tale che alla fine, come accade spesso, cominciarono anche a raccontare barzellette sporche e fecero risate oscene. Si narrarono aneddoti sul povero ingegnere, anche la moglie si lasciò andare: hai capito — dicevano tutti — chi avrebbe mai creduto che con quella faccia da fesso…! Fecero brindisi e pernacchie per il defunto.
Antonio tornò a mezzanotte e rideva ancora: aveva tutte le fotografie, tutti gli album di famiglia, un pacco di due chili almeno. L’indomani comparve in prima pagina la notizia della catastrofe con la foto del morto, una di quelle strane foto in cui l’individuo guarda dinnanzi a sé sorridendo, ma si vede subito che è morto oramai. Antonio non si vide più. “Ci sentiamo domani da Caviezel!” aveva detto in tipografia a un amico, e invece scomparve per sempre. Dicono che poi sia morto nella Legione straniera, in Indocina, ma i parenti dell’ingegnere lo cercano ancora…
Giuseppe Fava
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