Di Iraq e di Iran, di bombe al fosforo e di mercenari, ma anche e soprattutto di informazione è venuta a parlare a Catania Giuliana Sgrena.
Con un linguaggio semplice e un tono pacato, anche se determinato, ha spiegato il perchè di questo libro, soprattutto il perchè di questo ritorno nel paese dove era stata rapita.
Aveva bisogno di rielaborare non solo il trauma del rapimento ma forse ancor più il trauma della liberazione, pagata con la vita da Nicola Calipari, l’agente dei Servizi ucciso dal “fuoco amico”. Con questa morte la Sgrena non si è ancora riconciliata e certo non giovano i dubbi rimasti aperti sull’episodio.
Non solo con se stessa ha voluto riconciliarsi ma anche con il paese Iraq, in cui pensava che non sarebbe tornata mai più. Ha cominciato un percorso di avvicinamento graduale, è andata innanzi tutto negli USA, a cercare i soldati americani che hanno subito anch’essi il trauma di questa guerra, ha scoperto che molti, partiti da volontari, tornando hanno fondato l’associazione “Veterani contro la guerra in Iraq”.
Ha cercato, poi, in Siria e in Giordania i quasi due milioni di profughi che sono fuggiti dai bombardamenti e dalla distruzione, ma spiano ansiosamente che si creino le condizioni per un ritorno. Tra loro ha incontrato persone che avevano vissuto come lei l’esperienza del rapimento, questa pratica di vendetta, di estorsione, di ricatto di cui in occidente ci siamo occupati solo quando ha riguardato gli occidentali, ma che era all’ordine del giorno in quel paese allo sbando. Ha incontrato persone che avevano vissuto come lei l’esperienza di essere mitragliate dagli americani, perchè anche questo spesso accadeva, anche se non faceva notizia.
Si è riscoperta una di loro. Era pronta per tornare in Iraq.
Ma il ritorno è stato anche l’occasione per ritrovare la sicurezza professionale. Donna e pacifista, la Sgrena ha fatto la giornalista andando là dove c’era la gente, ascoltando e vedendo le situazioni reali di guerra. Non è rimasta al di qua dei tre metri di muro di cemento che proteggono la zona verde di Bagdad, dall’interno della quale si possono conoscere solo le notizie che viaggiano su Internet o sono comunicate ufficialmente dall’esercito.
Era stata accusata di esserselo cercato il rapimento la Sgrena. Perché anche allora, nel 2005, non si limitava a registrare le informazioni ufficiali, ma voleva vedere con i suoi occhi, sentire con le sue orecchie. E raccontare con onestà quello che aveva visto.
L’attacco americano all’Iraq ha segnato un punto di svolta nel sistema dell’informazione, che è stata militarizzata. Può dirsi ancora informazione quella dei giornalisti embedded, autorizzati a seguire le truppe, ma costretti ad accettarne il regolamento e la censura?
Perchè l’informazione sia libera, perchè l’informazione ci sia, ci vogliono giornalisti come Giuliana, che vadano nella “zona rossa“, correndone i rischi, anche quello di essere considerati delle spie. E che raccontino. Raccontino, perchè hanno visto, che a Falluja il fosforo bianco non era usato per illuminare e garantire la precisione del tiro, ma era usato come arma che bruciava i corpi. Raccontino le storie di coloro che maggiormente hanno pagato i costi della guerra, soprattutto i più deboli, i bambini e le donne.
E delle donne dell’Iraq ha parlato Giuliana, degli spazi conquistati negli anni ’50 con la legge sul diritto di famiglia, di quelli perduti sotto il controllo dominante dei partiti religiosi, di quelli di cui cercano di riappropriarsi oggi, in un momento in cui si fa strada un tentavo di ritorno alla laicità.
Ma le prospettive per l’Iraq sono incerte. E l’influenza dell’Iran è sempre più pesante, soprattutto nel sud del paese. Accrescere l’influenza dell’Iran non era certo uno degli obiettivi che si proponevano gli americani quando hanno imprudentemente spezzato con la forza il delicato equilibrio di quella parte di mondo, inserendosi violentemente all’interno di contrasti endemici, portando distruzione e rinfocolando odi senza sapere né potere proporre nulla più che una vaga e improbabile formula di “esportazione delle democrazia”.
Anche quello della presenza americana è un problema ancora aperto. Sono andati via dalle città gli americani, ma non hanno lasciato l’Iraq. E forse non lo lasceranno mai. Hanno costruito delle enormi basi militari, una ambasciata che non ha eguali altrove. A costo di rimanere chiusi in questi bunker, difficilmente abbandoneranno il territorio.
La sicurezza, in linea teorica, è oggi affidata agli iracheni, ma ci sono nel paese più di centomila contractors, mercenari assunti da potenti agenzie che li pagano bene perchè fanno affari d’oro. Lavorano per gli americani, per le ambasciate, per le compagnie petrolifere. Controllano i punti nevralgici, a cominciare dall’aeroporto di Bagdad. Provengono da ogni parte del mondo ed operano al di fuori di ogni regola, non obbediscono a nessuna legge, sono impuniti e impunibili.
Tra presenza iraniana, scontri interni ai partiti religiosi, invadente presenza dei mercenari stranieri, il futuro dell’Iraq si presenta molto problematico. Ciò nonostante si avverte molta voglia di reagire, di tornare a vivere normalmente, anche se la situazione non è affatto normale.
Molti intellettuali tornano, le donne ricominciano ad uscire di casa, ma ancora non c’è acqua, non c’è luce. Il museo di Bagdad è tuttora chiuso. Lo hanno aperto solo per poterne dare notizia, per accendere i riflettori e far parlare i giornali. Anche in questo caso bisogna andare e guardare. E anche in questo caso Giuliana lo ha fatto.
Che per fare informazione sia necessario stare dentro, verificare di persona, lo abbiamo visto anche in Italia, per esempio all’Aquila, dove ci sono state contrabbandate false verità. Non a caso l’Italia oggi è considerato uno dei paesi in cui la libertà di informazione è a un livello molto basso.
Ce lo hanno ricordato anche Caterina Pastura, della casa editrice Mesogea, e Farid Adly, giornalista libico presidente dell’associazione Mediterraneo, introducendo la relazione di Giuliana Sgrena, che anche a Catania era di ritorno. Visto che di ritorni sabato si è parlato.
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