Una questione pregiudiziale di inammissibilità (in quanto l’argomento non era mai stato affrontato in commissione bilancio) ha impedito, durante l’approvazione della finanziaria al Senato, la nascita della cosiddetta Banca del Mezzogiorno, sulla quale si erano registrati motivi di scontro anche all’interno del governo tra Tremonti da una parte e i ministri dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, degli Affari Regionali, Raffaele Fitto, e dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo dall’altra.
La difficoltà di accesso al credito è una delle questioni sollevate da tempo dagli imprenditori meridionali che vedono in essa il motivo per cui molti di loro sono costretti a ricorrere ai cravattari i quali, attraverso tassi da usura, alla fine riescono a sottrarre la titolarità della stessa azienda.
Dovremmo riuscire a leggere nel pensiero e nelle intenzioni dei promotori della istituenda Banca per capire cosa c’è dietro questa proposta, che, secondo le dichiarazioni, nasce come risposta al problema dell’accesso al credito delle imprese meridionali, ma non è altrettanto chiaro come possa rispondere ai criteri di sana ed efficiente gestione economica.
“Il progetto chiarisce pochissimo – si legge in un articolo di Salvatore Sacco, Un frankestein bancario per dare credito al Sud, sul n. 39 della rivista A Sud d’Europa (pag. 26) – la composizione della compagine sociale, la governance, la partecipazione di enti pubblici, la struttura operativa… il ruolo delle Poste, delle banche cooperative, delle altre banche operanti nel Mezzogiorno… gli strumenti che assicurerebbero la liquidità e la competitività della costituenda banca… il presunto comitato snello composto da 15 membri.
Si è detto che non si apriranno nuovi sportelli ma si utilizzeranno quelli del credito cooperativo e delle poste. Si è detto che lo Stato dovrebbe partecipare al capitale della banca solo con 5 milioni e per un periodo di tempo limitato, cinque anni. Ma si è anche detto che gran parte del capitale dovrebbe essere costituito da obbligazioni garantite dallo Stato, assoggettate a un trattamento fiscale agevolato rispetto alle normali obbligazioni: 5 per cento invece che 12,5. Ora, poiché le emissioni garantite dallo Stato fanno parte a tutti gli effetti del debito pubblico, il capitale della Banca del Mezzogiorno, malgrado le affermazioni in senso contrario del ministro dell’Economia, andrà ad aumentare il debito pubblico.
Chi decide a chi dare fiducia e a chi rifiutare il prestito? Saranno gli stessi amministratori del credito cooperativo e delle poste o vi saranno nuovi soggetti (politici?) che assumeranno le decisioni? Le Poste, il cui capitale è detenuto per il 65 per cento dallo Stato e per il 35 per cento dalla Cassa depositi e prestiti? “Al di là dei proclami – si chiedono T. Boeri e F. Panunzio in un articolo su www.lavoce.info.it – cosa ci sarebbe di privato in una banca il cui capitale è costituito da obbligazioni garantite dallo Stato e i cui vertici sono nominati, seppur indirettamente, dallo Stato?”. In presenza di un trattamento fiscale agevolato, anche coloro che hanno facilità di accesso al credito bancario si rivolgeranno alla Banca del Mezzogiorno per evidenti motivi di convenienza. Chi deciderà a chi concedere il beneficio?
Tutti noi siamo inondati di sms e mail che propongono crediti a tassi agevolati e senza necessità di garanzie. Al di là delle pubblicità ingannevoli è certo che comunque vi è nel mercato una discreta disponibilità di liquidità. Quindi se permane questa difficoltà di accesso – considerato che le banche hanno tutto l’interesse a prestare denaro – è perché le banche sono pigre e incapaci di valutare il merito di credito delle piccole imprese o perché non sono certe le garanzie a tutela del creditore? La nascente banca del mezzogiorno avrebbe come clientela proprio coloro che sono più a rischio di insolvenza? E dopo 5 anni, quando lo Stato si ritirerà dalla partecipazione al capitale, cosa ne sarà delle insolvenze?
Regna la confusione! Anche da parte dell’opposizione le idee non sembrano essere chiare. Da un lato si paventa la riesumazione della Cassa del mezzogiorno dove l’incidenza politica era alta, dall’altra si “vuole un’azione del sistema bancario sinergica con quella di Enti locali e mondo imprenditoriale”, come scrive P. Andruccioli su Rassegna.it del 18.10.09.
E tutto questo mentre nel mondo bancario si assiste a una riorganizzazione che, per aumentare i guadagni, sta determinano una riduzione degli sportelli attraverso un’aggregazione degli Istituti.
“Il sospetto – si legge ancora nell’articolo di Boeri e Panunzio – è che la Banca del Mezzogiorno non avrà come bussola nella sua attività la redditività dei suoi impieghi. Ma allora quali saranno i criteri con cui allocherà i fondi? Di solito, in questi casi, prevalgono criteri politici. Basta guadare alla recente storia italiana. Le cosiddette banche di interesse nazionale (Bin) hanno prestato massicciamente a gruppi imprenditoriali vicini a partiti o a uomini politici, realizzando perdite ripianate poi dallo Stato.
E’ ancora viva la memoria delle riunioni sulle nomine bancarie tra esponenti delle forze di governo e Banca d’Italia, una lottizzazione non dissimile da un mercato delle vacche. Le notti delle nomine erano una delle poche cose del passato di cui nessuno, a parte il ministro Tremonti, sembrava sentire la mancanza.
Francesco Forte concludeva il suo articolo sul Foglio con questa frase: “Vogliamo tornare a queste avventure (…)? Si rimettano questi sogni neo mercantilisti nel cassetto. Ci sono costati abbastanza”. Per una volta siamo d’accordo con lui”.
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