Tratto da: Antonella Lombardi, Scudo fiscale, si legalizza il tesoro della mafia, in A Sud’Europa, anno 3, n.39, 9.11.09
Come conciliare sviluppo e legalità quando è il governo a proporre strumenti inadeguati? Di queste e altre domande si è dibattuto a Palermo, all’interno della seconda edizione delle giornate dell’Economia del Mezzogiorno, il cui tema quest’anno è “Globalizzare la felicità”, proposito che, in tempi di crisi, non è certo facile.
Durante l’incontro “Sequestri e confische: strumenti di lotta contro l’economia mafiosa”, promosso dal Centro Pio La Torre e coordinato dal presidente Vito Lo Monaco, è stato analizzato anche il contestato provvedimento dello scudo fiscale.
Secondo l’Agenzia delle entrate sono circa 900 i siciliani che prediligono i paradisi fiscali. Eppure, le armi a disposizione degli inquirenti per contrastare il riciclaggio si sono costantemente assottigliate, come ha spiegato il sostituto procuratore di Palermo Dario Scaletta, intervenendo sulla questione. “La politica del condono è fallimentare, perché mina la serietà dello Stato e la fiducia dei contribuenti nel fisco. La terminologia stessa di scudo è più rassicurante di amnistia, parola spesso utilizzata invece all’estero. Lo scudo fiscale è, di fatto, un’amnistia perché cancella i debiti verso l’erario e i reati a beneficio della criminalità dei colletti bianchi e condona i principali reati finanziari.” Il limite più grande di questo provvedimento “è quello di aver garantito l’anonimato, rendendo così l’Italia il Paese più off -shore d’Europa: con esso cade infatti l’obbligo, da parte delle banche, delle Segnalazioni per Operazioni Sospette che hanno spesso dato l’avvio a preziose indagini che hanno permesso di scoprire capitali illeciti custoditi all’estero”.
Le soluzioni alternative e le sanzioni accessorie possibili, secondo Scaletta, sono quelle già proposte da altri magistrati, come Francesco Greco, procuratore aggiunto della Procura di Milano, che ha detto: “Chi non paga le tasse non può votare. Chi vota senza pagare le tasse decide come lo Stato userà i soldi delle tasse pagate dagli altri”. O come Roberto Scarpinato, procuratore aggiunto presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, che ha sostenuto la necessità di “Evitare che la legislazione antimafia diventi un’eterna tela di Penelope, che di giorno si tesse con nuovi provvedimenti e di notte si sfila creando enormi zone di opacità impermeabili alle indagini”.
Secondo Barcellona, del servizio legale del Centro Pio La Torre, tra le misure di prevenzione patrimoniale da prevedere occorrerebbe “ripensare alla destinazione giuridica dei beni confiscati” e ” destinare fondi utili per le spese necessarie del ministero della Giustizia. Nel nostro sistema, inoltre, non esiste un sistema di tutela dei terzi in buona fede, cioè di fornitori e creditori. Le vittime dei reati di usura non rientrano tra i destinatari dei fondi previsti dal pacchetto sicurezza”.
D’altra parte la richiesta di revisione della legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni mafiosi avanzata nel famoso ‘papello’ di Totò Riina torna a fare discutere.
Secondo Gennaro Favilla, autore, insieme a Maria Eliana Madonia, di una ricerca sull’utilizzazione dei beni confiscati, “E’ il punto sul quale la criminalità organizzata è ancora sensibile, ma le lungaggini e le difficoltà che tuttora persistono mostrano un’amara verità. E’ come se lo Stato, diversamente dalla mafia, dimostrasse di non sapere gestire o utilizzare i beni confiscati”.
“Molte volte si ritiene che la consegna di un bene sia il punto di arrivo dell’azione repressiva, ma non è cosi – ha spiegato Umberto Di Maggio, coordinatore dell’associazione Libera a Palermo – Noi crediamo che un’antimafia che agisca di fioretto, che punga e basta, senza andare di sciabola, serva a poco. Per questo siamo passati dalla protesta alla proposta”.
La proposta, concreta, è arrivata dai prodotti dei campi coltivati sui terreni sottratti alla mafia e venduti alla bottega della legalità a Palermo, un esempio positivo di riutilizzo sociale di un bene confiscato.
L’essenza del problema, infatti, sta tutta nelle cifre, ancora basse, che testimoniano le difficoltà di gestione di beni gravati da ipoteche o utilizzati abusivamente, dopo la confisca, da boss o prestanome.
I numeri sono stati forniti da Davide Mancuso: “Fin qui sono 1185 le aziende confiscate, di cui 452 in Sicilia, seguono, al terzo e quarto posto, Lombardia e Lazio, ma appena il 32% viene riutilizzato”.
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