Ho 28 anni, da quattro anni lavoro come dipendente di una ditta privata e ho uno stipendio dignitoso. Arrivo, infatti, a prendere all’incirca 1.000 euro. Da ragazza facevo la volontaria, partecipavo attivamente alle esperienze di boicottaggio, leggevo libri sul consumo critico. E adesso? Adesso non faccio più volontariato, ho poco tempo e soprattutto molto stress. Ma vorrei almeno mantenere lo spirito di solidarietà e uno stile di vita (e quindi di acquisti) che rispecchi le cose in cui ancora credo. Non è facile. Anche se si dice che i giovani sono spesso irresponsabili e pensano solo al presente, ho fatto la scelta impegnativa di acquistare una casa e di addossarmi un mutuo, la cui rata pesa per circa due terzi del mio stipendio. Poi ci sono le bollette, i costi del mezzo di trasporto etc. Andiamo nel dettaglio. Se voglio continuare la pratica del boicottaggio e, quindi, boicottare, ad esempio, la Nestlè, al supermercato devo scegliere o un’altra marca (che quasi sempre rientra fra quelle da boicottare) o una “sottomarca della sottomarca”. In questo secondo caso, però, rischio non solo di perdere in qualità ma anche in salute.. Se voglio fare i miei acquisti nei negozi del commercio equo e solidale, devo pensarci due volte. Al supermercato un caffè dal gusto decente mi costa in media 1,80 €, quello del commercio equo è in media 2,50… Se fai un minimo di scorta e prendi 4 pacchi (confezione risparmio al supermercato), spendi 7 € contro i 10 € del commercio equo. Lo so che per 3 euro non mi rovino, ma se prendo solo il caffè… La differenza diventa pesante se decido di comprare molte più cose del commercio equo. Sto parlando delle cose di uso e consumo quotidiano, non degli acquisti che si fanno una tantum. Non parliamo, poi, se volessi acquistare dei prodotti biologici, consapevole – come sono – dei danni che i pesticidi, gli antiparassitari etc. fanno alla salute e all’ambiente. I prodotti bio (ammesso che lo siano veramente, e non siano solo dichiarati tali) costano normalmente il doppio di quanto non costino quelli che si trovano normalmente in commercio. E sorge il dubbio che la differenza non sia del tutto giustificata… Fare la spesa, così, però, diventa un’impresa titanica o uno sfizio, non più una necessità. Eppure è davvero una necessità! Come se non bastasse, molto spesso le botteghe “etiche” o i mercatini biologici sono collocati fuori mano e, se devo prendere la macchina, inquino e spendo altri soldi, se prendo i mezzi pubblici aggiungo comunque altra spesa al costo che già dovrò sostenere (senza considerare il problema non indifferente del tempo). Gli intrecci esistenti tra le multinazionali, per di più, sono tali che, se volessimo essere intransigenti, non dovremmo neanche avvicinarci ad un supermercato e non basterebbe evitare le aziende più grosse e preferire quelle più piccole (vedi Coca cola contro Tomarchio, tanto per esemplificare). Anche per gli abiti e il vestiario si pongono dei problemi. Esistono tutti i tipi di capi di vestiario di origine etica e/o solidale (a parte le scarpe… e allora nessuno dovrebbe indossare scarpe da tennis e scarpe di pelle), ma fino a che punto questi capi di vestiario sono realmente fruibili nella vita quotidiana? Rimane valido il principio base, vale a dire evitare gli acquisti inutili, resistendo alle tentazioni indotte dalla moda e dal consumismo, ma nell’applicazione di questo principio è più facile ricorrere ai banchetti della “fiera” che ai prodotti solidali. In poche parole… consumo critico? si grazie… ma i problemi restano.
C’è poco da aggiungere. E’ proprio come scrive Sara. Che fare quindi? Tenersi informati, intanto, in modo da acquisire altri elementi di giudizio. E poi fare quel che si può, acquistare solidale e biologico fin quando ce lo permettono conoscenza e portafoglio. Ma non farsi stressare anche dalla necessità assoluta di mangiare “pulito” ed “equo”. Difendersi dai veleni e dalle multinazionali finchè possiamo. Per il resto andiamo avanti senza patemi. Se il consumo alternativo diventa un chiodo fisso si rischia di aggiungere ai veleni e ai prezzi da pagare anche il tossico della ricerca parossistica e dello stress da mancata solidarietà.
La questione, comunque, rimane aperta. Speriamo che, sull’argomento, a questo contributo ne seguano altri, anche da parte di chi produce e commercializza tali prodotti.
La battaglia contro la privatizzazione del porticciolo di Ognina sembrava vinta. A maggio dello scorso…
In Sicilia si chiamano Assistenti all’Autonomia e alla Comunicazione (ASACOM), in Italia hanno altre denominazioni,…
Felice Rappazzo, docente dell'Università di Catania, ci propone la sintesi di un dibattito avvenuto presso…
Un ‘bellissimo novembre” per il Ponte sullo Stretto, sul quale – in questi ultimi giorni…
Offrire agli studenti l’opportunità di ragionare su fenomeni di rilevanza economica che non siano riducibili…
Tornano su Argo i catanesinpalestina per parlarci della edizione 2024 del Nazra Palestine Short Film…